PEDOFILIA: SCANDALO E KAIROS

di Lilia Sebastiani

Le voci ufficiali ripetono che il celibato non c’entra. La formazione al celibato, però, c’entra moltissimo. Una formazione in cui le donne reali sono escluse e la possibilità dell’innamoramento è presentata come un incidente di percorso e una tentazione;  che non aiuta a realizzare un rapporto sano e sereno con il proprio corpo sessuato, né rapporti adulti (paritari, quindi) né un’affettività svincolata dai dinamismi perversi del tipo dominio-sottomissione. L’autentica disponibilità a indagare in modo serio, e dunque libero, sugli episodi di abusi che continuano ad affiorare, non può essere separata dalla disponibilità a riparare, e a ricercare le vere cause: quindi anche a riformare profondamente le strutture della chiesa.
In questo modo lo scandalo e la peggiore crisi che la chiesa abbia attraversato negli ultimi secoli potranno rovesciarsi nell’occasione per una crescita condivisa e per un bene più grande. 

Ha una risonanza quasi ironica e sarcastica per alcuni – ma per altri misteriosamente  provvidenziale – il fatto che questo in corso, nelle intenzioni della gerarchia, doveva essere l’‘anno del sacerdozio’: ovvero, come preferiamo dire più correttamente, del ministero ordinato. Proprio in quest’anno lo scandalo suscitato dalla pedofilia da parte di membri del clero riprende a divampare più allargato, più violento che nella prima fase (2001-2002), e ne scaturisce una sofferenza profonda per tutti coloro che si sentono Chiesa, una sofferenza che coinvolge sia i più conservatori sia i più aperti. La crisi è impugnata da alcuni per invocare una più decisa ‘restaurazione’, da altri nella prospettiva di una vera, indifferibile riforma.
Condanne e sospensioni ora raggiungono anche vescovi. Talvolta in quanto essi stessi colpevoli, altre volte perché indebitamente comprensivi. E’ giusto, certo, eppure non riusciamo a non pensare che anche quei vescovi da un certo punto di vista sono vittime: nel loro ingiusto silenzio, non facevano altro che agire nel modo che per lungo tempo era stato loro istillato come “giusto”, “prudente”, “caritatevole”, mettendo davanti a tutto il sacro dovere di tener la chiesa al riparo dagli scandali. Dunque ammonire in privato, cercare qualche soluzione che facesse poco rumore, evitare il più possibile il coinvolgimento dell’autorità laica…, addirittura (è successo) esortando le vittime a tacere e perdonare, ovvero non denunciare, “per amore della chiesa”. Non certo per rispetto delle vittime. Nemmeno per pietà dei colpevoli, lasciati allo sbaraglio con la loro malattia ed esposti al rischio di ripetere più e più volte quello che avevano già fatto: solo nell’interesse dell’istituzione.
Secondo un documento vaticano del 1962 Crimen sollicitationis, molto ricordato negli ultimi tempi,  questi fatti erano coperti da un obbligo di segreto assoluto, la cui violazione implicava la scomunica latae sententiae (automatica cioè, neppure conseguente a un processo canonico). Anche il documento del 1981 De delictis gravioribus parla di segreto pontificio, e non sconfessa il documento precedente, pur allungando i termini per la prescrizione (dieci anni a partire dalla maggiore età della vittima, non più da quando fu commesso il fatto).
In un’intervista del 2002 il cardinal Bertone giungeva ad ammettere che “in particolari casi potesse esserci una qualche forma di collaborazione, qualche scambio di informazioni, tra autorità ecclesiastica e magistratura”, ma già il fatto di ammetterlo ‘in particolari casi’, come eccezione, ribadiva che la regola ordinaria resta il silenzio. Solo in tempi recenti (gennaio 2010) il cardinale Hummes ha riconosciuto sull’Osservatore Romano che “i preti pedofili vanno giudicati dalla giustizia ordinaria, non solo da quella ecclesiastica”. Non è proprio una scoperta dirompente: quel che colpisce è che nel 2010 si senta ancora il bisogno di dire questa cosa ovvia.
E dopo tanto silenzio adesso se ne parla, forse anche troppo, ma si capisce: è reazione all’eccesso di silenzio colpevole o complice in alcuni, in altri pavido o noncurante. Se ne parla all’interno della chiesa e fuori, se ne parla in modo accorato e in modo ostile, con vero dolore, con imbarazzo e reticenza, con curiosità scandalistica e anche – è vero – con una specie di acre soddisfazione, che ha permesso ad alcuni prelati conservatori di aggrapparsi alla comoda e penosa ipotesi (ora abbandonata, per fortuna) del ‘complotto’ antiecclesiale.
Sebbene dei pedofili si trovino nelle più diverse categorie di persone, quando si tratta di religiosi e preti pedofili il giudizio sembra più spietato, almeno nel senso che coinvolge l’istituzione nel suo insieme. E’ vero, gran parte dell’opinione pubblica appare ostile e affamata di scandalo e incline a soffiare nel fuoco; può giungere a estremi ridicoli e di pura provocazione, come la proposta di Richard Dawkins di arrestare il Papa se mai metterà piede sul suolo inglese; ma perché avviene questo? E’ vero che la Chiesa si è autoesposta agli attacchi con il suo tradizionale atteggiamento sospettoso e rigorista nei confronti della sessualità, con l’ingerenza sistematica anche nell’intimità delle coppie più oneste, con il rifiuto di mettersi in discussione. La Chiesa ha avuto, e in parte forse ha ancora, la tendenza a porre i suoi preti come ‘uomini sacri’, connotati in primo luogo dalla rinuncia all’uso del sesso: sarebbe importante approfondire i rapporti simbolici e pratici tra celibato e potere.

Ora si parla apertamente di peccato: ma del peccato di singoli. La chiesa viene presentata come vittima a sua volta, offesa e danneggiata da questo peccato. Non si vogliono ancora riconoscere le responsabilità della Chiesa stessa, come istituzione umana. Si dimentica volentieri che gli stessi colpevoli sono stati vittime. E continuando a parlare di questi episodi solo in termini di peccato (anche se peccato sono, senza dubbio), sembra che si voglia sfumarne l’oggettiva consistenza di reato, anzi di crimine. Non basta dire che qualcuno ha fatto male – qualcuno che è sempre ‘qualcun altro’ -; ma occorre anche indicare cause e responsabilità e vie autentiche di riparazione, di risanamento se possibile.
Ricercare le cause solo nella debolezza e nel vizio di singoli ecclesiastici sarebbe evasivo. Dare la colpa alla rivoluzione sessuale o alla secolarizzazione sarebbe sempre un modo di porre il problema ‘fuori’, evitando di guardarlo davvero. La Chiesa deve guardare alle proprie strutture, in primo luogo: al centralismo autoritario e alla mancanza di trasparenza, al modo in cui tuttora vengono formati i candidati all’Ordine sacro.
Le voci ufficiali ripetono quasi affannosamente che il celibato non c’entra. Sarebbe più sincero dire: il celibato non si tocca, e vogliamo che non se ne parli.
Non il celibato in sé, forse, ma la formazione al celibato c’entra moltissimo. Una formazione in cui le donne reali sono programmaticamente escluse, in cui non sussiste alcuna prospettiva di una normale e positiva vita di coppia, e la possibilità stessa dell’innamoramento è presentata come un incidente di percorso e una tentazione; che non aiuta a realizzare un rapporto sano e sereno con il proprio corpo sessuato, né rapporti adulti (paritari, quindi) né un’affettività svincolata dai dinamismi perversi del tipo dominio-sottomissione.
Aggiungiamo che ai crimini dei pedofili non rimane estraneo, come causa e come conseguenza, una certa visione di Dio, un certo modo irrazionale e superstizioso di intendere la fede: modi che la chiesa tollera o anche loda paternalisticamente come “fede semplice”, mostrandosi invece assai più severa verso la fede adulta, quindi critica, quindi sanamente problematica e inquieta.
Di recente sia il Papa sia autorevoli prelati hanno ripetuto che la Chiesa ha un aiuto speciale dall’alto, che ne sarà sempre sostenuta… Lo crediamo fermamente per la Chiesa come comunità dei credenti; per la chiesa cattolica come istituzione, dipende. Dipende dal suo modo di operare, dalla sua disponibilità e dalla sua trasparenza.
L’amore di Dio e il suo Spirito non vengono meno per gli errori e i peccati degli uomini; ma proprio perché si confida in questa continuità di presenza si può e si deve optare per un agire rinnovato. La scelta di fondo, per essere scelta evangelica e profetica, deve essere di trasparenza e franchezza.
Dovrebbe essere conosciuta da tutti la proposta (oltre che la ‘lettura’ della crisi) avanzata nell’ottimo documento pubblicato a fine marzo da Noi Siamo Chiesa, la sezione italiana di We Are Church: in breve, vi si suggerisce che in ogni Conferenza episcopale venga istituito un “Collegio per l’ascolto e la trasparenza”, i cui membri dovrebbero essere anche donne, provenire possibilmente dalla magistratura, e in ogni caso operare indipendentemente dall’autorità ecclesiastica.
Qualcosa di simile risulta già attuato in Austria, e anche nella diocesi di Bolzano-Bressanone.
L’autentica disponibilità a indagare in modo serio, e dunque libero, sugli episodi di abusi che continuano ad affiorare, non può essere separata dalla disponibilità a riparare, e a ricercare le vere cause: quindi anche a riformare profondamente le strutture della Chiesa. Non la solita operazione di maquillage ecclesiale, che non servirebbe a nulla.
Da questa situazione contraddittoria e lacerata non si esce, in particolare, senza riconsiderare a fondo ruolo e fisionomia del prete nella chiesa cattolica.
Già parlare di anno ‘sacerdotale’ ispira disagio: per i cristiani l’unico sacerdote della nuova Alleanza è Gesù stesso, e chiamare sacerdoti una particolare categoria di persone all’interno della Chiesa può solo appannare l’idea del sacerdozio universale dei fedeli e il senso della loro responsabilità.
Parlare di ‘riduzione allo stato laicale’ come punizione per i preti indegni è una cosa talmente offensiva per i laici (anche se, soggettivamente, fosse usata senza alcuna intenzione di offendere) e talmente legata a un’ecclesiologia medievale e tridentina ormai superata, che nessun laico adulto dovrebbe più accettarne l’uso senza reagire.
Infine non si può più prescindere da un reale coinvolgimento delle donne nella vita della chiesa. Non solo come spose dei ministri ordinati, ma come sorelle e colleghe nel ministero; partecipi di tutte le funzioni magisteriali e di governo e, appunto, di formazione.
Crediamo che solo per questa via lo scandalo e la crisi – a parere nostro, e non solo nostro, la peggiore che la Chiesa abbia attraversato negli ultimi secoli – potranno rovesciarsi nell’occasione per una crescita condivisa e per un bene più grande.

 

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