Passione, morte e riabilitazione di Nostro Presidente Bettino Craxi

di  Arnaldo Casali

Hammamet di Gianni Amelio è un film imbarazzante. Soprattutto per i critici di sinistra, che non possono parlare male dell’amico Amelio e non possono parlare bene del nemico Craxi.

Ed è perfettamente inutile cercare di nascondersi dietro il film intimista, introspettivo, che parla di un uomo che sta morendo e non del politico più discusso della storia italiana.

Altro che film intimista: il sottotitolo potrebbe essere Passione, morte e riabilitazione di Nostro Presidente Bettino Craxi: la sceneggiatura è apertamente e al tempo stesso pavidamente partigiana, tanto che più che una marchetta alla Minoli sembra un film girato sotto ricatto, come se durante l’intera lavorazione Amelio avesse avuto sui propri attributi la mano di Stefania Craxi pronta a stringersi in una morsa alla prima battuta non gradita.

Tutto questo prescinde, sia chiaro, dal giudizio sul protagonista. Che Bettino Craxi sia stato il più ladro, il più spregiudicato, il più intrallazzone dei politici italiani che ha avuto l’arroganza di sottrarsi ai giudici e rifugiarsi all’estero o che sia stato il più grande e coraggioso statista italiano, vittima sacrificale di un pool di magistrati al soldo di un ex Partito Comunista ansioso di rivalsa e assetato di potere, il giudizio sul film non cambia. O almeno, non dovrebbe cambiare.

Che Bettino Craxi meriti o meno di essere riabilitato, che sia morto esule o latitante, che sia stato la più clamorosa vittima di una campagna diffamatoria o la più clamorosa incarnazione della corruzione della politica, Hammamet resta un film clamorosamente di parte, che punta a “vendicare” Craxi, ma lo fa con poco stile e senza un briciolo di coraggio.

Perché Amelio per un’ora e mezza non fa che lanciare il sasso e nascondere la mano. Tutto questo al netto della qualità dell’opera, che è oggettivamente alta. Non mi soffermerò a lodare la bravura di Pierfrancesco Favino, anche perché è stato fatto fino allo sfinimento. D’altra parte non lo scopriamo certo oggi, che Favino è il più grande attore italiano, tra i pochissimi camaleonti capaci di calarsi dei panni di qualunque personaggio (si contano sulle dita della mano: da quando Placido e Castellitto hanno tirato i remi in barca sono rimasti solo lui, Elio Germano e Kim Rossi Stuart). Piuttosto quello che è mirabile, in Hammamet, è il trucco incredibile con cui è Favino è stato trasformato, perché quando a voce e gestualità, il talento dell’attore romano si era già visto l’anno scorso in Il traditore (in cui la mimesi era affidata solo alla voce, visto che Buscetta, a differenza di Craxi, da vivo non lo aveva mai visto nessuno). E non dimentichiamo che nel suo carnet, Favino, aveva già personaggi come Giuseppe Pinelli, Clay Ragazzoni, Gino Bartali, Giuseppe Di Vittorio e Niccolò Polo. E c’è una scena, in questo film, in cui – addirittura – fa il doppio salto mortale imitando Craxi che imita De Mita.

Ma non è solo il protagonista, a regalare al film una splendida interpretazione: Favino è circondato da un cast tutto in stato di grazia in cui spiccano Livia Rossi e Luca Filippi. Per il resto, ci sono momenti di grande cinema – come la scena del sogno – altri più retorici e naif, altri decisamente lenti.

Quello che è assurdo, invece, per un film tanto curato nei minimi dettagli, è l’utilizzo del green screen per ricreare il maxi schermo del Congresso del PSI del 1989. Probabilmente sono l’unico ad averlo notato, ma sembra di vedere un film degli anni ’80 quando per mostrare un televisore acceso venivano usati gli effetti speciali. Se proprio non voleva ricostruire l’intero schermo, Amelio, poteva almeno cercare di dargli maggiore realismo anziché presentare delle scene in cui, anziché un videowall ci si ritrova davanti a uno split screen.

Ma torniamo a noi. Gianni Amelio, si diceva, tira il sasso e nasconde la mano, a cominciare dai nomi e dai personaggi: mette in scena un sosia di Craxi ma lo chiama “Presidente” senza fare mai il nome (addirittura Bobo – anche lui un sosia – con i giornalisti lo chiama “C”). Alla figlia Stefania viene addirittura cambiato il nome in Anita, mentre le vere amanti (Ania Pieroni, attrice a cui Craxi regalò un albergo e una emittente televisiva e Patrizia Caselli che lo seguì in Tunisia) vengono fuse nel personaggio di un’amante immaginaria. Non vengono fatti nemmeno i nomi dei partiti (nonostante venga ricostruito il congresso del PSI con tanto di logo), l’amministratore del partito viene re-inventato completamente e il personaggio principale del film – quello interpretato dal credibilissimo Luca Filippi – è completamente immaginario.

Insomma Amelio tiene il piede su due staffe: vuole raccontare il più controverso capitolo della storia d’Italia ma – a differenza di Sorrentino e Bellocchio – si rifiuta di fare nomi, e si rifugia fino all’ultimo nel “tutto sommato potrebbe essere una metafora shakespeariana”.

Craxi viene ritratto come un santo – santo arrogante, certo, santo con un caratterino per niente facile, ma la perfezione non è di questo mondo – impegnato ad assistere i poveri, che rifiuta volentieri la scorta, ama profondamente i figli, la moglie, il nipotino, l’amante (ma non ci fa sesso), l’Italia, e muore esule e martire: addirittura la scena finale – quella del sogno – lo mostra crocifisso tra due ladroni, anche se c’è la sedia a rotelle al posto della croce, due comici di avanspettacolo (un gradito ritorno di Olcese & Margiotta) al posto dei ladri, un teatro al posto del Calvario e il pubblico del Bagaglino a fare la parte degli ebrei.

L’Ecce Homo ritratto da Amelio è impressionante: Craxi, come Cristo, muore come un malfattore, deriso da tutti.

E invece… invece era innocente? Amelio non si assume la responsabilità di affermarlo, né tanto meno quella di negarlo. Il famoso tesoro nascosto in qualche paradiso fiscale viene ripetutamente evocato, ma sempre con sarcasmo dallo stesso Craxi. Chi non si è documentato, quindi, è naturalmente portato a pensare che sia stato inventato dai detrattori. E pazienza se invece è stato scoperto in Svizzera e lo stesso Craxi ne ammise l’esistenza nel 1996 durante un’intervista con Vespa.

Tutto ciò che viene detto sulle tangenti intascate da Craxi e da tutti gli altri politici per i propri affari personali è riassunto in una battuta di Renato Carpentieri: “I soldi erano per la politica, ma qualcosa rimaneva attaccato sulle mani”. Tutto qui: qualcosa rimaneva attaccato sulle mani, dice il politico democristiano, ovviamente senza nome. Craxi non nega né conferma. Tace.

Quanto alla villa di Hammamet, dove il film è stato girato (e già il fatto che sia stata concessa ad Amelio la vera villa di Craxi dove ancora vive la moglie, la dice lunga sulla libertà creativa di cui può aver goduto!), viene sottolineato – dal solito democristiano senza nome – che tutto sommato è piccola, semplice, senza nemmeno vista sulla spiaggia. Proprio lo stesso commento che, guarda caso, ha fatto Bruno Vespa in una puntata di Porta a Porta in cui ha finito per scontrarsi con Stefania Craxi perché si è permesso di dire che Bettino è morto latitante. “Non è un giudizio politico – si è affrettato a precisare alla furibonda figlia – è un dato oggettivo: ha subito due condanne, quindi era giuridicamente latitante”. “Condanne ingiuste!” ha replicato la figlia. Le stesse parole che sentiamo nel film.

Ma il peggio è che se non si assume la responsabilità di denunciare i “peccati” di Craxi, Amelio non si assume nemmeno la responsabilità di difenderlo: tutte le tirate senza contraddittorio che il Presidente fa contro mani pulite, infatti, vengono mostrate solo ed esclusivamente attraverso l’obiettivo di una telecamera con cui il personaggio di Filippi lo riprende le sue confessioni, e mai direttamente: uno stratagemma usato dal regista per filtrare quelle parole e non assumersene la responsabilità.  A rievocare l’episodio di Sigonella (quando di fatto, il premier difese i terroristi palestinesi dai militari americani) addirittura è il nipotino: un bambino che può permettersi di raccontare i fatti nel modo più semplicistico e descrivendo il nonno come un eroe.

Tanto meno si assume, Amelio, la responsabilità di denunciare i traditori: Craxi, in ospedale, legge una lettera e insulta ferocemente il suo autore. Che è Giuliano Amato, lo si deduce perché il figlio dice che parla a nome del governo, e al governo in quel momento c’era proprio l’ex braccio destro di Bettino. Che però non viene assolutamente nominato.

In un’altra scena si vede Berlusconi ospite proprio di Bruno Vespa. Craxi sta guardando la televisione, si alza e va in un’altra senza. Senza dire assolutamente nulla.

Alla fine quello che si capisce, dopo aver visto questo film, è che – sì – senza dubbio Bettino Craxi è stato un capro espiatorio, senza dubbio è stato vittima di un complotto politico, ma nonostante tutto questo non ha mai smesso di essere estremamente potente, capace di asservire (pagandoli – e che li pagava lo dice lui stesso a Vespa) stampa, televisione e politici di ogni partito. E a vent’anni dalla morte, quel potere è più forte che mai, tanto che a scriverne l’apologia, oggi, è proprio un intellettuale tra i più illustri dell’ambiente politico che ha cercato di distruggerlo senza mai riuscirci davvero.

P.S.
Le musiche sono di Nicola Piovani ma sembrano di Franco Piersanti


P.S. 2
Quando Craxi va a trovare l’amante viaggia su una macchina targata 69. Un caso o una finezza?

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