Tutto Pinocchio al Cinema

di Arnaldo Casali

E’ riuscito in un doppio miracolo, Matteo Garrone, con il suo Pinocchio: da una parte ha riscattato l’infelice quanto nobile opera di Roberto Benigni, dall’altro ha liberato il capolavoro di Collodi dall’incantesimo in cui lo aveva imprigionato Luigi Comencini.

Se definire quello del regista romano il “Pinocchio definitivo” sarebbe ingiusto nei confronti di un libro gigantesco che non potrà mai essere racchiuso in un film, quello che invece si può dire è che l’opera di Garrone è senza dubbio la più fedele trasposizione cinematografica della fiaba di Collodi. Per quanto, si intende, un’opera cinematografica possa essere fedele a un libro – e ad un libro metaforico, per di più.

Non a caso la più feroce accusa che viene mossa al film di Garrone è quella di non essere il libro di Collodi. L’altra (comprensibile per quelli della mia generazione) è quella di non essere la serie televisiva di Luigi Comencini. Il che sarebbe un po’ come dire che Shining di Kubrick è una cagata pazzesca perché non è il libro di Stephen King, o che E’ nata una stella con Lady Gaga è una schifezza perché non è quella con Judy Garland.

Dunque, premesso che un libro è un libro e un film è un film e ogni opera va giudicata in sé e non in relazione ad altre opere che l’hanno ispirata o preceduta, Matteo Garrone è senza dubbio il regista che più si è sforzato di rendere in immagini la storia italiana più celebre al mondo, piuttosto che limitarsi ad usarla come fonte di ispirazione per la sua poetica.

Luigi Comencini trasformò la fiaba di Collodi in uno sceneggiato neorealista dalla forte connotazione politica. Quasi tutti gli animali antropomorfi – dal Gatto e la Volpe alla Lumaca, da carabinieri cani fino al giudice scimmia – erano stati trasformati in esseri umani, mentre pochissimi (come il grillo parlante e il tonno) erano rimasti animali.  Rifiutando la lettura educativa della fiaba, il regista lombardo aveva scelto quella che vede nel burattino il prototipo del ribelle facendo della fata dai capelli turchini una figura materna e pedante (addirittura la moglie defunta di Geppetto).

Quanto al burattino, Comencini rivoluzionò completamente la storia trasformandolo sin dall’inizio del film in un bambino che – solo occasionalmente – torna di legno. La scelta da una parte era coerente con l’approccio totalmente realistico dato dal regista alla fiaba, dall’altra rappresentava un efficace escamotage per risolvere il problema di far recitare un burattino. Una scelta che costò a Carlo Rambaldi la più grande delusione della sua carriera: autentico Geppetto del cinema, il padre di E.T. dieci anni prima di dare volto e vita all’alieno di Spielberg aveva già realizzato, per Comencini, un pupazzo animatronico in grado di interpretare tutto il film  (che si è potuto ammirare solo quest’anno grazie alla mostra La meccanica dei mostri allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma).

Una volta deciso di far interpretare al pupazzo solo una parte minima dello sceneggiato, Comencini rubò letteralmente la creatura di Rambaldi, facendosene realizzare – a minor costo – una versione con lo stesso aspetto ma con movimenti molto più goffi, e si prese una denuncia per plagio che ritardò la messa in onda del film.

Se in Itala Pinocchio significa Comencini, nel resto del mondo significa Walt Disney: primo film di animazione a vincere un Oscar per la colonna sonora, il Pinocchio prodotto dall’uomo che ha disegnato l’infanzia di ogni bambino nato negli ultimi due secoli è inevitabilmente ancora più personale e arbitrario fino a distaccarsi anche iconograficamente dal prototipo e trasferire la fiaba dalla Toscana al Sud Tirolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Pinocchio di Roberto Benigni, infine, arrivava da lontano: era un progetto incompiuto di Federico Fellini, che aveva anche lasciato alcuni disegni. Dopo il trionfo mondiale di La vita è bella per l’attore e regista italiano – e toscano – più celebre al mondo, interpretare la storia italiana – e toscana – più celebre al mondo era quasi una tappa obbligata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Nonostante lo sconfinato amore e rispetto per la fiaba e l’affinità con il personaggio, però, il Piccolo Diavolo aveva fallito miseramente la missione a causa della totale mancanza di una visione registica.

Il premio Oscar era rimasto vittima della soggezione nei confronti del personaggio: non aveva avuto il coraggio di fare il suo Pinocchio: si era sforzato di essere fedele a Collodi e non c’era riuscito, il risultato è un film che – a differenza di quello di Comencini – non ha alcuna visione né poetica né politica – ma che non rappresenta nemmeno una trasposizione fedele del libro.

Benigni aveva cercato di recuperare quella dimensione favolosa dell’opera di Collodi messa da parte dallo sceneggiato: così al posto di ambientazioni reali piene di miseria c’erano sfavillanti scenografie ricostruite in studio da Danilo Donati ed effetti speciali a profusione. Il problema di portare in scena un burattino, poi, il comico nemmeno se lo era posto: dopo aver consultato anche lui Carlo Rambaldi (che aveva realizzato dei pupazzi di Pinocchio con il volto di Benigni, restando ancora una volta deluso) il regista aveva optato per un approccio totalmente non-realista della fiaba: Pinocchio non è un burattino ma un uomo di cinquant’anni, e tutti i bambini del film sono interpretati da adulti. La Fatina, come in Comencini, è una donna di mezza età (allora Gina Lollobrigida, qui l’inseparabile Nicoletta Braschi).

Tra i personaggi meno riusciti c’è senza dubbio il Geppetto di Carlo Giuffré, teatrale, retorico, fasullo e fuori parte, che non fa rimpiangere solo quello indimenticabile di Nino Manfredi, ma persino quello di Martin Landau nel film americano del 1996 e quello di Bob Hoskins nella pessima fiction Rai del 2009 diretta da Alberto Sironi.

Il grillo parlante è un uomo (Peppe Barra) ma ha le antenne in testa ed è grande pochi centimetri. il Gatto e la Volpe, invece, come in Comencini sono esseri umani e interpretati da una coppia di comici (allora Franchi & Ingrassia, ora i Fichi d’India) mentre il giudice è davvero una scimmia. Tutto ciò senza che dietro queste scelte si intraveda una linea o una scelta artistica.

Nonostante tutto, però, il film di Benigni – la più costosa produzione cinematografica italiana – resta una delle tre più importanti trasposizioni in immagini della storia del burattino.

Per il resto, dopo il primissimo film del 1911 di Giulio Antamoro interpretato da Polidor (anche qui a vestire i panni del burattino c’è un comico adulto, in questo caso però pesantemente truccato) che sarà in qualche modo richiamato dalla versione televisiva di Pee Wee Herman, va ricordato l’orrendo film del 1947 di Giannetto Guardone, con il bambino Alessandro Tomei truccato in modo approssimativo e doppiato da una donna, Vittorio Gassman nei panni (ridicoli) del pescatore verde, e Gatto, Volpe e Grillo Parlante interpretati da attori mascherati da animali.

Da segnalare poi i film di animazione di Giuliano Cenci del 1971 e di Enzo D’Alò del 2012 e i già citati Le straordinarie avventure di Pinocchio di Steve Barron, straordinaria americanata del 1997 con il burattino realizzato in digitale e il Pinocchio di Alberto Sironi, che di fatto riprende tutte le trovate di Comencini (il non-burattino, qui, è il l’inglese Robbie Kay) con l’aggiunta di Alessandro Gassman nei panni dello stesso Carlo Collodi; un’opera imbarazzante e superflua di cui si salva solo il duetto comico tra Geppetto e Mastro Ciliegia che cita Chi ha incastrato Roger Rabbit? (che era stato interpretato dallo stesso Hoskins).

Matteo Garrone, con il suo film, riesce – in qualche modo – a trovare la sintesi di tutto, realizzando un’opera che è al tempo stesso divertente e poetica, realistica e fiabesca, un kolossal umile e una commedia noir.

Nell’era dominata dal digitale il regista romano riduce al minimo gli effetti speciali utilizzando invece le tecnologie più sofisticate per il trucco: è grazie al make up, infatti, e non al computer, se l’incredibile Federico Ielapi si trasforma in un burattino credibilissimo (e così gli altri burattini, interpretati da nani).

Garrone sceglie l’approccio fiabesco, restituendo l’aspetto antropomorfo del libro a quasi tutti i gli animali (fanno eccezione, ancora una volta, il Gatto e la Volpe quasi del tutto umanizzati, mentre la lumaca è una vera lumaca dal volto di donna, così come il cane-cocchiere Medoro, il giudice scimmia, i medici gufo e corvo, il Tonno e il Grillo Parlante).

A differenza di Comencini, poi, Garrone sceglie di non imporre la sua poetica al libro ma – al contrario – cerca di avvicinarsi il più possibile a quella di Collodi, con un’operazione tanto coraggiosa quanto scaltra e ambiziosa.

Se dall’autore di L’imbalsamatore, Dogman e Il racconto dei racconti ci si aspettava un Pinocchio dark, dalle atmosfere morbose e inquietanti, a sorpresa il regista di Gomorra sceglie un registro umoristico, regalandoci il Pinocchio più comico della storia del cinema. L’altra sorpresa è che per farlo si avvale di un personaggio da tempo screditato – anzi, diciamo pure sputtanato – dal quale tutto ci saremmo aspettati tranne che un gioiello come questo, e cioè Massimo Ceccherini, che non solo è presente come attore nei panni della volpe, ma addirittura figura come co-autore della sceneggiatura insieme a Garrone; e sono proprio le trovate di Ceccherini a regalare a questo Pinocchio quella leggerezza che lo rende un film adatto tanto agli adulti quanto ai bambini e che, nonostante le atmosfere cupe (quantunque filologicamente corrette) non manchino, riesce a regalare molte risate.

Con un colpo solo, dunque, Garrone non solo ci regala il più bel film sulla fiaba di Collodi, ma riscatta anche due conterranei di Pinocchio tanto diversi tra loro quanto legati alla fiaba come Ceccherini (il cui primo film da regista, nel 1998, si chiamava Lucignolo) e Benigni, che se nel ruolo del burattino era risultato improbabile, in quello di Geppetto fa scomparire persino Nino Manfredi.

Dietro il Geppetto così vero di Benigni c’è un’anima affine alla creatura a cui dà vita: di chi può essere figlio Pinocchio se non di un altro Pinocchio? Va sottolineato, d’altro canto, che tanto Geppetto quanto Pinocchio sono due diminutivi dello stesso nome: Giuseppe.

Come lo stesso Roberto Benigni ha più volte sottolineato, poi, per l’attore toscano si tratta anche di un ritorno nel ruolo di un padre, a 22 anni da La vita è bella. A dare ancora più verità al personaggio del comico premio Oscar, il fatto che attorno a Geppetto si muovono personaggi che portano i nomi familiari allo stesso Benigni: Remigio (il vicino di casa) doveva essere infatti il suo nome, mentre Anna e Albertina sono le sue sorelle.

Un ritorno a Pinocchio è pure quello di Rocco Papaleo che veste i panni del Gatto, e che nel film di D’Alò aveva doppiato Mangiafuoco.

Anche Paolo Graziosi (Angelo per il migliore attore al Terni Film Festival nel 2017 per il corto Amore grande dove interpreta – non a caso! – un bambino) dà vita al più bel Mastro Ciliegia della storia del cinema e Gigi Proietti nei panni di Mangiafuoco trova finalmente al cinema un ruolo degno del suo talento.

Tra le innovazioni più interessanti del film c’è la lettura filologica della Fata dai capelli turchini, che inizialmente è una bambina e si trasforma successivamente in una ragazza, restando – però – sempre uno spettro, una morta vivente che vive in una casa fantasma.

E se nel ruolo della bambina abbiamo una incredibile Alida Baldari Calabria che, come Ielapi e il Lucignolo di Alessio Di Domenicantonio incanta per la sua spontaneità, più deludente è la versione adulta interpretata dalla modella francese Marine Vacth, che non brilla per fascino ma si distingue perché è l’unica del cast  ad essere (fastidiosamente) doppiata.

Per il resto, tutti i comprimari rappresentano perle di un bellissimo gioiello: da Davide Marotta (grillo e burattino), Massimiliano Gallo (il direttore del circo), Gigio Morra (il regista rivale di Moretti in Sogni d’oro che qui è l’oste nell’unica scena inventata di sana pianta), Enzo Vetrano (il maestro), Nino Scardina (un viscidissimo Omino di Burro che chiama “amorini” i bambini presi in trappola), Maurizio Lombardi (il tonno, memorabile la battuta: “meglio morire sott’acqua che sott’olio”) e Sergio Forconi, tra i più noti caratteristi toscani.

Qua e là, qualche buco nella sceneggiatura si trova – ma la perfezione non è di questo mondo – e l’unica scena davvero non riuscita è quella (pure lodata da certa critica garantista) della condanna nel paese Acchiappacitrulli, in cui – per una volta – era riuscito molto meglio il film di Benigni.

Va aggiunto che come riesce a mescolare poesia, inquietudine (la trasformazione in somari è davvero da film horror) e umorismo, Garrone riesce a innestare una fiaba piena di animali parlanti all’interno di una cornice totalmente realistica, segnata da quella “aristocratica miseria” (per usare una definizione di Benigni) che è parte fondamentale della poetica di Collodi e che Comencini aveva scelto come chiave di lettura.

Infine, la musica: che Collodi ne abbia ispirata moltissima è noto (basti pensare al musical dei Pooh e al capolavoro di Edoardo Bennato); se quella del film di Disney è entrata nel repertorio dei grandi classici (celeberrima la versione di Louis Armstrong), l’immagine del burattino di legno è indissolubilmente legata alla colonna sonora composta da Fiorenzo Carpi per Comencini, ma anche nel film di Benigni la cosa più bella era la musica di Nicola Piovani, reduce dall’Oscar vinto con La vita è bella.

Anche qui Garrone fa un miracolo affidandosi ad altro premio Oscar, anche se indubbiamente meno noto: Dario Marinelli, toscano attivo a Hollywood dove ha vinto la prestigiosa statuetta nel 2007 con il film britannico Espiazione.

Marinelli riesce a regalarci momenti di grandissima poesia con un tema meno malinconico di quello di Carpi e più meditativo di quello di Piovani, ma bello quanto e forse più dei predecessori.

E se Comencini aveva affidato La canzone di Geppetto alla voce di Nino Manfredi e Roberto Benigni aveva cantato personalmente il tema del suo film, Marinelli ha affidato il brano dei titoli di coda ad una della voci più belle della musica italiana contemporanea, peraltro pisana come lui: Petra Magoni.

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