La maggior parte degli atleti italiani sono costretti a essere dilettanti

Condannati a essere dilettanti: è la condizione della maggior parte degli sportivi italiani, e soprattutto delle donne; con tutto ciò che ne consegue in termini di previdenza sociale, assistenza sanitaria, maternità e contratto di lavoro.

La legge che regolamenta l’attività sportiva in Italia – e che risale al lontano 1981 – affida infatti al Coni e alle Federazioni la decisione su quali sport siano professionistici e quali no. E ad oggi il diritto al professionismo viene riconosciuto solo a quattro discipline: calcio, golf, serie A di basket e ciclismo; e solo per le categorie maschili. La ragione è che lo sport femminile è troppo povero e non assicura abbastanza soldi per essere preso in considerazione; idem per gli altri 56 considerati dilettantistici. Luisa Rizzitelli, presidente dell’Associazione nazionale atlete, sottolinea come ad oggi il massimo che il genere femminile sia riuscito a ottenere negli organismi sportivi è la vicepresidenza della Federbasket e la presidenza del Coni di Trento. Complessivamente nei consigli federali siedono solo 57 donne su quasi 500 posti, mentre nella «Walk of Fame» lanciata dal Coni figurano 13 donne su 100 atleti. L’unico passo in avanti, finora, è stato fatto dal Governo uscente, che ha inserito nella Finanziaria una norma che crea un fondo per la maternità delle atlete per un valore di 2 milioni di euro; una toppa in un sistema in cui le sportive, se aspettano un bambino, perdono qualsiasi diritto, con tanto di clausole antigravidanza inserite nei contratti. Ma non può più aspettare una riforma che consenta agli atleti di sport «minori» di svolgere un lavoro con pari diritti e dignità. Finora, per molti, l’unica soluzione è stata entrare nei gruppi sportivi militari; ma è evidente che quella militare è – o dovrebbe essere – tutt’altra vocazione.

“Una situazione che ben dimostra il bisogno di inquadrare professionalmente chi fa questo lavoro” commenta Maria Cristina Tonna, giocatrice e allenatrice italiana del rugby femminile, squadra entrata nelle sei migliori nazionali al mondo, riuscendo dove gli atleti maschi – e i professionisti – hanno fallito.

    Questa voce è stata pubblicata in dossier, Sport. Contrassegna il permalink.

    I commenti sono chiusi.