Benedetta follia, maledetta ansia di successo


di Arnaldo Casali

L’inarrestabile declino di Carlo Verdone è dovuto, in primis, al terrore che Carlo Verdone ha del suo declino. E Benedetta follia, fasullo come il colore dei capelli, lo dimostra in modo impietoso.

Verdone ha paura di invecchiare, ogni film lo gira con l’ansia di fare quel passo falso che il pubblico e il produttore non gli perdoneranno. Verdone sa di essere invecchiato, sa di non avere più niente da dire, sa che il pubblico si sta stancando delle sue commedie. E non riesce ad accettarlo.

Quello che Verdone non ha capito è che l’unico modo per non invecchiare, è crescere. E lui si rifiuta di farlo: il suo cinema è bloccato a Maledetto in giorno che t’ho incontrato. Da allora, quando non si tuffa (in modo sempre più patetico) nei suoi vecchi personaggi, non fa che ripetersi.

E la cosa peggiore è che lui lo sa: sa di ripetersi, è terrorizzato dall’idea di ripetersi, e ripete sempre lo stesso errore. Quello, appunto, di ripetersi.

Ad aggravare la malinconica situazione, poi, c’è il fatto che proprio nel momento in cui stava perdendo la sua ispirazione, Carlo ha cambiato produttore e si è messo nelle mani del Re dei cinepanettoni: uno che non va troppo per il sottile, che vuole soldi e risate, che alla commedia sofisticata preferisce la farsa pecoreccia. Il risultato è il cinema verdoniano degli ultimi 15 anni: quasi tutto dimenticabile e dimenticato, con qualche pesante caduta di stile (Grande, grosso e Verdone) e qualche parentesi riuscita (Io, loro e Lara); per il resto, si spazia dal discreto al mediocre, in un implacabile declino in cui si perdono risate, storie credibili, voglia di tornare al cinema.

Ed è un peccato, un peccato davvero. Perché lui, la buona fede e la buona volontà, ce le mette pure; è il coraggio che gli manca. Il coraggio di crescere: perché per crescere bisogna cambiare, bisogna rischiare. E Carlo Verdone, no, non vuole rischiare. Lui vuole il successo, e non vuole una qualsiasi forma di successo (magari come regista lirico, cosa che gli riesce bene, o come attore e a basta, affidandosi a qualche regista di talento), no: lui vuole sempre lo stesso successo; quello che lo accompagna da quarant’anni: vuole lo stesso pubblico, vuole le stesse risate, vuole essere quello di sempre. E non capisce che questo è contro natura. Perché è naturale che si invecchi, si cambi, si cresca. Charlie Chaplin non ha fatto mica Charlot fino a ottant’anni; eppure è riuscito a far ridere, fino a ottant’anni, evolvendosi.

In 38 da regista, invece, Verdone non ha mai fatto nulla che si allontanasse minimamente da quello che ha sempre fatto. E’ forse l’unico attore-regista ad aver diretto quasi un film all’anno senza mai farne uno di cui non fosse il protagonista assoluto. Mai.

Roberto Benigni in ogni film sperimentava una formula nuova in un trionfo di fantasia (regia a quattro mani, viaggi nel tempo, film storico, sosia, mafia, cronaca nera, esorcismi, Auschwitz, Iraq, effetti speciali, grandi classici della letteratura) e poi, quando ha finito l’ispirazione, semplicemente si è fermato. Nanni Moretti, invece, è sempre sé stesso, con le sue manie, il tuoi tic e le sue battute, ma ha almeno avuto il coraggio di metterci nome e cognome girando autentiche autobiografie, o il buon gusto di farsi interpretare da altri attori – come Silvio Orlando e Margherita Buy – e in 12 film è riuscito a non ripetersi mai.

Carlo Verdone, invece, è sempre lì: da 26 commedie sempre nella sua Roma, a fare l’imbranato un po’ ipocrita, alle prese con ragazze esuberanti e situazioni imbarazzanti. In quarant’anni si è permesso solo due – dico due – trasferte: una a Bruxelles e una a Milano. Non riesce ad allontanarsi né dal suo ambiente, né dal suo stile, né tanto meno un minimo da sé stesso.

L’unica cosa che cambia – ogni tanto – sono gli sceneggiatori. E di solito si vede poco: questa volta un po’ di più. D’altra parte se prendi quello di Lo chiamavano Jeeg Robot, Indivisibili, Suburra L’ora legale, ovvero Nicola Guaglianone, ovvero l’autore del momento capace di trasformare in oro tutto ciò che tocca con la penna, qualcosa dovrà pure succedere.

E invece no. Non succede quasi niente. Perché Verdone, a farsi reinventare, non ci sta; e non nasconde la nostalgia per i suoi vecchi collaboratori. Perché lui vuole essere sempre il solito. La cosa paradossale è che a detta  sia di Guaglianone che di Verdone, l’ossessione di questo film è stata proprio il non dover ripetere cose già fatte nei film precedenti.

Ed ecco, ecco perché è sempre meglio essere spontanei: perché in questo film non c’è praticamente nulla di nuovo e Verdone – dall’inizio alla fine – non fa che ripetere situazioni, dinamiche relazionali, atteggiamenti che propone dai tempi di Borotalco. E’ un film che non ha nulla di spontaneo, e si vede: si vede che nessuno si è divertito a fare questo film, perché Verdone non si è sentito abbastanza sé stesso e Guaglianone non è riuscito a farlo diventare qualcos’altro.

L’unica sequenza degna di nota  – non a caso –  è l’unica che Verdone ammette di aver subito completamente e con scarsa convinzione: è la scena onirica, con balletto ed effetti speciali. Niente di particolarmente originale, beninteso, ma resta l’unico guizzo della pellicola e una vera boccata d’aria fresca in un film asfissiato dalle solite dinamiche da commedia di Verdone (lo scontro-incontro tra il frustrato di mezz’età e la giovane commessa coatta, la moglie che lo lascia, le amanti improbabili) e da una comicità di grana grossa tipicamente alla De Laurentis, che spinge sempre sul tasto della farsa e trasforma tutti i personaggi in macchiette stereotipate.

Ilenia Pastorelli è brava e simpatica, ma è lontana anni luce dall’incanto di Jeeg Robot e il suo romanaccio così insistito finisce francamente per diventare stucchevole, Verdone si circonda di ottime attrici ma non c’è un solo dialogo in tutto il film che risulti credibile, nessuna scena che sia realistica, nessuno sketch che non sia prevedibile.

La stessa cornice vaticana (il protagonista ha un negozio di articoli sacri), lungi dall’aprire una finestra sulla Chiesa di Bergoglio (che di spunti ne offrirebbe parecchi) o fare satira sugli scandali Vatileaks, serve solo a sottolineare il perbenismo e la repressione del personaggio e a prestare il fianco a siparietti che non riescono nemmeno a far ridere.

Inutile aggiungere che – come del resto ogni altro ambiente descritto nella pellicola – questo Vaticano non ha nulla di realistico: vescovi e cardinali che ricevono in ufficio e vanno a cena in veste da cerimonia (con tanto di zucchetto e mantellina), la guardia svizzera che sorveglia l’abitazione di un cardinale (ma quando mai? E’ la guardia personale del papa) e non può nemmeno parlare (ma quelli sono i soldati del Milite ignoto, le guardie svizzere parlano tranquillamente).

Ma d’altra parte come si potrebbe pretendere una ricostruzione accurata del Vaticano in un film che ci mostra un divorziato che dopo aver rimorchiato un’assatanata in un sito internet di incontri, si mette a parlarle di arte sacra del Cinquecento?

Fa davvero tanta malinconia vedere ridotto così un mostro sacro del cinema italiano che, se si lasciasse andare, se ne fregasse del successo a tutti i costi e provasse a divertirsi di più, forse qualcosa di significativo lo farebbe ancora.

“Sei noioso” non fanno che ripetergli tutti durante il film; non solo i personaggi, ma anche gli spettatori in sala. Perché Verdone è davvero noioso e nevrotico come i suoi personaggi, e come i suoi personaggi avrebbe bisogno di uno scossone vero che gli dia nuova vitalità.

Non resta allora che augurarsi che questo film sia quel fiasco tremendo di cui Verdone ha così tanto terrore e così tanto bisogno e che – come ogni crisi – possa preludere ad un cambio di rotta e alla rinascita di un grande talento.

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