1917

George MacKay as Schofield in “1917,” the new epic from Oscar®-winning filmmaker Sam Mendes.

di Arnaldo Casali

Ci sono andato con molta curiosità – vista la pioggia di nomination seguita dalla mega sòla agli Oscar – e anche un po’ di pregiudizio, avendone letto una feroce stroncatura scritta da un autorevolissimo critico.

Confesso che invece il film di Sam Mendes mi ha coinvolto profondamente, emi è entrato dentro come non mi succedeva dai tempi del Pianista: è un film che ti trascina dentro l’orrore della Grande Guerra e ti costringe ad immedesimarti nella lotta per la sopravvivenza del protagonista, ti immerge in un’avventura dantesca spettacolare e drammatica, dove la violenza brutale si alterna alla poesia, la paura alla speranza, il tutto con immagini di incredibile bellezza pur restando un’opera profondamente asciutta, che si tiene lontano da retorica, romanticismi, e finali consolatori.

Come scriveva Elena Montesi non è davvero il solito film di guerra. Anzi, forse non è affatto un film di guerra, pur se è totalmente ambientato in un campo di battaglia, e anche per questo trovo del tutto fuori luogo il paragone con Salvate il soldato Ryan mentre mi ha ricordato moltissimo il capolavoro di Polanski.

Si sente – perdonate il gioco di parole – che il regista ha sentito profondamente questo film, basato sui racconti di suo nonno.

Il lunghissimo piano sequenza con cui è stato costruito, a differenza di Birdman non è un esercizio di stile, né mira a ricostruire le unità aristoteliche (visto che la durata dell’azione è sette volte quella della pellicola) ma serve a dare maggiore realismo , e riesce effettivamente nel suo intento perché – senza sacrificare la bellezza della fotografia – riesce a mostrarti sempre la guerra ad altezza di soldato.

Perché dunque un film così bello viene giudicato tanto brutto? Paradossalmente, proprio perché è troppo bello.

Gianluca Arnone lo ha definito “trionfo dell’ornamentale” con “l’architettura narrativa del videogioco”, uno “specchietto per allodole”, “il saluto al bel cinema di guerra per un cinema di guerra bello”.

In altre parole, un’opera furba ed estetizzante, insomma incanta villani. E probabilmente ha anche ragione. Ma qui la discussione si sposta su un altro piano, e cioè sul ruolo dell’arte e del cinema come arte.

Veniamo da giorni in cui si è dibattuto sul valore artistico di un (presunto) provocatore che si è presentato ad un festival della canzone senza saper cantare. Ecco, forse dovremmo cercare di rimettere le cose un po’ a posto, e prima di fare valutazioni sul significato intellettuale di un’opera e giudicarla in base a quello dovremo tenere presente anche la qualità oggettiva, altrimenti davvero finisce che la banana di Cattelan sia un capolavoro e 1917 una cagata pazzesca, Luciano Pavarotti due palle così e Achille Lauro un profeta.

Anche il cinema, soprattutto il cinema italiano, si è nutrito fin troppo di pseudo artisti del tutto incapaci ma osannati dalla critica per ragioni estranee alla loro capacità di scrittura, di ripresa, di direzione degli attori, di costruzione scenica. Poi, è vero: ci sono grandi film vuoti di contenuti e di senso che io stesso ho odiato, come La grande bellezza. Che, però, per quanto lo consideri il film peggiore di Sorrentino, non definirei mai “grande schifezza”.

1917 è Cinema. Probabilmente furbo, patinato e frivolo e il mio occhio non è abbastanza smaliziato per smascherarlo. Ma resta pur sempre cinema con la C maiuscola.

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