Perché il trionfo di Parasite agli Oscar in fondo non è una buona notizia

 

di Arnaldo Casali

Con il trionfo del coreano Parasite agli Oscar 2020 per la prima volta la stessa pellicola vince sia come Miglior Film che come Miglior film straniero.  A prescindere dal valore dell’opera – che non è qui in discussione – il primato segna una nuova frontiera agli Oscar ma anche un profondo controsenso.

Secondo quale logica, infatti, una pellicola può vincere sia come film americano che come film straniero? Di fatto è come assegnare allo stesso film l’Oscar per la sceneggiatura originale e quello per la sceneggiatura non originale, o alla stessa interpretazione per lo stesso film l’Oscar per l’attore e quello per l’attrice, quello per il protagonista e per il non protagonista.

Teoricamente, infatti, le categorie Miglior Film e Miglior Film Straniero non sono compatibili: storicamente la categoria per il miglior film è riservata al film in lingua inglese mentre quella per il film straniero è riservata a pellicole in altre lingue.

Il primo straniero ad essere candidato come miglior film assoluto fu, nel 1996, Il Postino. La scelta dell’Academy, in quel caso, serviva però proprio a compensare la mancata candidatura dell’opera come film straniero da parte dell’Italia.

Mentre la categoria Miglior Film – come tutte le altre – riguarda infatti esclusivamente il mercato americano, per la categoria Film Straniero le candidature vengono effettuate su una rosa di nomi selezionati dai paesi di origine e che possono anche non essere usciti in America. Nel 1996 l’Italia selezionò La scuola di Daniele Luchetti, che non arrivò comunque alla cinquina finale. L’unico modo per candidare Il Postino, per l’Academy, era quindi quello di inserirlo nella categoria principale con una forzatura del regolamento. Se non ricordo male, la distribuzione americana della Miramax fu fatta passare per co-produzione e sicuramente il fatto che il regista fosse britannico aveva in qualche modo legittimato la scelta, che fu comunque inaudita e fuori da ogni schema.

In compenso da quel momento anche le pellicole straniere iniziarono ad accedere eccezionalmente alla categoria principale.

La vita è bella fu il primo film ad avere entrambe le nomination, vincendo – però – solo la categoria per il film straniero. L’idea di premiare una pellicola girata in italiano come miglior film assoluto era ancora assurda, tanto che pur di non dare l’Oscar principale al capolavoro di Roberto Benigni  – che resta ancora oggi un classico conosciuto e amato in ogni angolo del mondo – gli preferirono il trascurabile Shakespeare in Love, per il quale è difficile spendere un aggettivo che vada oltre il carino.

La formula di Benigni fu ripetuta, qualche anno dopo, per La tigre e la neve di Ang Lee mentre il primo straniero a vincere l’Oscar come miglior film è stato The Artist che, tuttavia, pur essendo una produzione francese, era muto e ambientato in America, quindi straniero fino a un certo punto.

Premiare invece un film coreano girato da un regista che non parla nemmeno una parola di inglese è una scelta del tutto inedita che cambia la natura dell’Oscar stesso, che non può più dirsi premo del cinema americano, ma premio del cinema mondiale. Non a caso proprio quest’anno è stata modificata anche la dizione del Miglior Film Straniero, divenuto Miglior film internazionale. 

A questo punto, però, se l’Oscar premia il cinema internazionale, che senso ha la categoria Miglior film internazionale? Il controsenso del doppio premio a Parasite rimane.

Quel che è certo è che l’internazionalizzazione dell’Oscar non passa certo solo per il paradosso delle due categorie ormai doppioni. Basti pensare alla categoria Miglior regia, dove negli ultimi 10 anni ha vinto un solo regista americano: Damien Chazelle nel 2017, per il resto, dal 2011 ad oggi hanno vinto un regista britannico, un francese, un taiwanese, un coreano e ben cinque volte registi messicani.

E’ evidente che se l’Oscar – pur essendo il premio del cinema americano – viene percepito da sempre come il premio del cinema mondiale, oggi l’Academy, aprendosi sempre di più alla cinematografia internazionale, vuole prendersi anche formalmente quel ruolo.

Eppure c’è un’anomalia in tutto questo: fondamentalmente, è come se la Casa Bianca pretendesse di assumere il ruolo delle Nazioni Unite. Perché quella che assegna gli Oscar non è un’accademia internazionale, ma resta un’agenzia squisitamente americana che premia al 90% film americani.

D’altra parte se l’Oscar è il più importante premio cinematografico al mondo, i motivi sono diversi:

Primo, perché – semplicemente – è stato il primo: tutti gli altri premi nazionali, dal David italiano al César francese, dal Bafta britannico al Goya spagnolo fino all’Orly polacco sono nati tutti dopo e su imitazione dell’Oscar.

Secondo, perché il cinema americano domina i mercati di tutto il mondo: dal momento in cui la maggior parte dei film che vediamo sono americani, è ovvio che l’Oscar ci appare come il premio di tutto il cinema.

Terzo, perché il mercato americano è basato sulla lingua inglese, a prescindere dal paese di produzione, quindi copre automaticamente anche tutti i film britannici, canadesi, australiani, neozelandesi e le coproduzioni internazionali girate in inglese (Zeffirelli e Bertolucci, per esempio, sono stati registi – di fatto – americani).

Ora, l’internazionalizzazione dell’Oscar da una parte è un dato positivo perché significa una maggiore apertura del mercato cinematografico americano con un conseguente arricchimento culturale che giova all’intera cinematografia mondiale.

Se vogliamo guardare alla cosa con malizia, però, possiamo anche pensare che questo fin troppo eccessivo ecumenismo voglia far fronte al sempre maggiore prestigio di altri premi.

Se la nascita dell’Euro, rompendo il monopolio del dollaro come moneta internazionale, ha messo in crisi l’economia americana, il sempre crescente prestigio della European Film Academy fondata da Wim Wenders potrebbe insidiare il monopolio dell’Oscar come riconoscimento internazionale, picconato anche dal Bafta, il premio britannico che dell’Oscar ha lo stesso identico mercato: non a caso quest’anno i candidati e quasi tutti i vincitori erano gli stessi, anche se i britannici hanno preferito il loro 1917.

Con maggiore coerenza, poi, i Bafta hanno tre categorie: “Miglior film”, “Miglior film britannico” e “Miglior film straniero”.

Non dimentichiamo poi che il prestigio internazionale, Parasite, l’ha ottenuto vincendo il Festival di Cannes. Che è una cosa completamente diversa dagli Oscar: i grandi festival, infatti, a prescindere da dove si svolgono, non hanno frontiere: tutte le nazionalità presenti sono sullo stesso piano, mentre ad oggi non esiste un premio internazionale che veda tutti i mercati sullo stesso piano.

Aprendosi al mondo, quindi, gli americani vogliono ribadire il loro ruolo di giudici universali e tenersi stretta la capitale mondiale del cinema.
Sotto questo profilo la cosa appare in realtà assai meno positiva di quanto sembri: è come se la federazione brasiliana di calcio pretendesse di organizzare i mondiali.

In un mondo globalizzato con un cinema senza frontiere il premio del cinema internazionale dovrebbe essere assegnato da un’agenzia internazionale in cui tutti sono alla pari, e non benevolmente elargito dal più forte. Come e quando più gli garba.

 

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