VIVA LA GUERRA, ABBASSO LA PACE

A che scopo? L’ultima lettera da Stalingrado: «Tendimi la mano, amore mio».

di Mario Pancera

Il 24 dicembre 1942, le divisioni tedesche che dal settembre tentavano di entrare nella città russa di Stalingrado, cominciarono a ripiegare. I morti non si contavano più. I feriti vennero riportati nelle retrovie con alcuni aerei. Alla fine i tedeschi, circondati a loro volta, si arresero: ne morirono non meno di 120 mila. Non so quanti russi siano morti, ma certo anche quelli si contano a centinaia di migliaia. Aggiungi donne e bambini, ragazzi e vecchi. Tutti figli di Dio. A che scopo? Era Natale. Oggi la città si chiama Volgograd e ha circa tre milioni di abitanti.

Non ci sono altre domande da fare: a che scopo? Hitler voleva portare la sua pace. Molti vogliono portare la loro pace e lo fanno uccidendosi l’un l’altro. Assistiamo a veri sterminii. Nel Mali si uccidono l’un l’altro. Dov’è il Mali? Domandatelo su una metropolitana, su un autobus, a scuola. Non lo sa nessuno. A chi interessa il Mali. Bande islamiste uccidono i cristiani in Nigeria. Della Nigeria forse conosciamo qualche giocatore di calcio. Nell’Africa mediterranea le armi fabbricate dagli occidentali, per lo più cristiani, contribuiscono ai massacri tra le stesse popolazioni per lo più musulmane: Egitto, Libia, Tunisia, Siria. Non parliamo del caso Israele-Gaza: gli ebrei contro tutti, e tutti, o quasi, contro gli ebrei. Ognuno vuole la sua pace e ognuno spinge gli altri e se stesso alla guerra. La morte.

«…Volevo scriverti una lunga lettera, ma i miei pensieri continuano a sfasciarsi come quelle case colpite dal fuoco delle artiglierie. Ho ancora dieci ore di tempo prima che parta questa lettera. Dieci ore sono lunghe quando si attende, ma sono brevi quando si ama». Queste sono righe scritte alla persona amata da un soldato tedesco nel dicembre 1942, davanti a Stalingrado in fiamme.

«Non sono affatto nervoso. Anzi, qui da queste parti mi sono completamente risanato. Non conosco più né raffreddori né influenze: è questa l’unica cosa buona che la guerra mi ha dato. Un’altra cosa ancora mi ha dato, la coscienza di amarti. È strano come si pensi alle cose solo quando si sta per perderle. Un ponte va da cuore a cuore, per tutta l’enorme distanza. Attraverso questo ponte ti ho scritto della mia vita di ogni giorno e del mondo in cui viviamo. Se tornassi, vorrei dirti la verità, e poi non parleremmo mai più di guerra. Ora saprai la verità prima che io volessi: l’ultima verità. Ed ora non sono più capace di continuare a scrivere.

«Ci saranno sempre ponti, finché ci saranno rive, dovremmo soltanto avere il coraggio di incamminarci su di essi. Uno di questi ponti va verso di te, l’altro va nell’eternità, e in fondo per me è lo stesso. Domani mi incamminerò sull’ultimo ponte, questa è l’espressione letteraria per la morte, ma tu sai che mi è sempre piaciuto ornare un po’ le cose, per il piacere delle parole e del suono. Tendimi la tua mano, così il cammino non sarà troppo difficile».

Le parole, il suono, la vita. La lettera, che fa parte di una raccolta pubblicata tempo fa da Einaudi, è una delle ultime uscite da Stalingrado, non arrivò mai a destinazione. Trasportata in Germania in aereo, ne vennero cancellati l’indirizzo e il nome del mittente, fu aperta e passata in archivio a scopo statistico, come le altre.

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