Todi is a small town in the center of Italy


di Arnaldo Casali

Innanzitutto va detta una cosa: Todi is a small town in the center of Italy di Livia Ferracchiati che ha appena concluso un mese di repliche allo studio Uno del Caos di Terni dopo il debutto al Festival della creazione contemporanea, è completamente diverso da Peter Pan guarda sotto le gonne, il precedente lavoro di Ferracchiati, presentato anch’esso al Terni Festival lo scorso anno.
Diverso sotto tutti i punti di vista: poetica, composizione del cast, struttura drammaturgica. E non è affatto scontato, né nell’arte in generale, né nel teatro, né tanto meno nel teatro contemporaneo, dove in genere al centro non c’è l’opera ma l’artista e lo spettacolo è solo una forma espressiva della poetica (più spesso del disagio) dell’autore.

Livia Ferracchiati, invece, è una narratrice vera: capace di trovare una storia e di farsi da parte per raccontarla. E il risultato è che – pur accomunate da una radice autobiografica -le sue sono sempre storie molto diverse tra loro,  narrate con incredibile realismo e leggerezza e attori in stato di grazia.

Tutto ciò che accomuna le ultime due opere della giovane regista di origine tuderte sono un testo che è una macchina da guerra e la bravura degli interpreti magistralmente diretti. E in un panorama artistico che si nutre quasi esclusivamente di suggestioni, di immagini, di retorica, di masturbazioni intellettuali e di autoreferenzialità, sono qualità tutt’altro che scontate.

Todi si presenta come l’impietoso ritratto della provincia italiana, come un atto di accusa nei confronti dell’ipocrisia di una cittadina dove anche solo avere una macchina gialla rappresenta una forma di anticonformismo inaccettabile per la comunità. In realtà, però, è molto, molto di più.

E’ un omaggio – anche affettuoso e sinceramente devoto – non ad un simbolo della provincia italiana, ma ad una città ben precisa, che conta appena 16mila abitanti, ma è tanto importante da aver dato i natali a figure storiche come Jacopone e Matteo d’Acquasparta, ma anche al cardinale Antonelli e alla presidente della Regione Marini; una città tanto bella che i suoi abitanti riescono ad allontanarsene a stento solo per le vacanze estive.

D’altra parte la stessa Livia, che l’ha lasciata dai tempi dell’università e vive da anni a Milano, nel tornare per indagarla finisce per celebrarla. Confermando, peraltro, l’idea che non c’è modo migliore per essere universali che raccontare la propria piccola realtà.

Ferracchiati lo fa percorrendo un doppio binario: quello del documentario e quello della fiction. Il progetto nasce infatti da una serie di interviste realizzate dalla regista ai tuderti, che vengono proiettate durante lo spettacolo andando ad incontrare le scene interpretate dai quattro straordinari protagonisti – Caroline Baglioni, Michele Balducci, Elisa Gabrielli e Stella Piccioni – e da Ludovico Rohl, che veste i panni dell’alter ego della regista, intervistando i quattro amici trentenni, che rappresentano – a loro volta – una sintesi dei personaggi realmente ascoltati da Ferracchiati.

(piccola parentesi: nei dialoghi tra i quattro amici, l’autrice trasforma in teatro anche i messaggi vocali di wazzup – quando si dice arte contemporanea)

E’ proprio attraverso Rohl – al tempo stesso narratore e interprete – che il reportage si fa teatro, ed è proprio nei passaggi dalla narrazione al dialogo che si consumano i momenti più raffinati dello spettacolo. Il narratore, infatti, racconta le interviste mentre le fa, ma i gesti raccontati non corrispondono mai a quelli che l’attore sta facendo in quel momento, come a voler separare la narrazione dall’azione sottolineando che il ruolo dell’autore è quello di interprete e non di mero cronista.

Tutti e quattro umbri ma nessuno di Todi (arrivano da Terni, Perugia, Bastia e Foligno) i quattro protagonisti recitano rigorosamente in dialetto tuderte. E già questo basterebbe a fare di Todi is a small town uno spettacolo fortemente trasgressivo: come è noto, infatti, gli unici dialetti sdoganati in campo artistico sono il romano, il toscano, il napoletano, il pugliese e l’emiliano; tutti gli altri rimangono solennemente banditi dal cinema e dal teatro.

Ciò che è invece bandito da questo spettacolo sono la retorica, l’ideologia, la prevedibilità, il manicheismo. Quella che viene raccontata – con realismo, ritmo, una scenografia incantevole nella sua semplicità (una parete bianca con disegni che ricordano i sampietrini), musiche coinvolgenti e dosi massicce di ironia, è una piccola comunità dove tutti si conoscono, dal pettegolezzo non si sfugge e questo è il brutto, ma anche il bello. (“Io chiacchiero degli altri, e gli altri chiacchierano di me – dice un’intervistata – e finché lo fanno sono contenta. Si vede che sono un argomento interessante!”).

Dopotutto, se Todi viene considerata la città più vivibile del mondo, ci sarà pure una ragione. Così come ci sarà pure una ragione se i suoi abitanti sono così radicati nella loro città, così legati alle sue mura, alle sue case, ai suoi paesaggi. E non se ne andrebbero per nulla al mondo.

Basta scendere pochi chilometri più a sud per sentire come cambia la musica. Là dove il provincialismo non si nutre più di mura, di paesaggi, di comunità, ma solo di acciaio e di pallone, dove la gente se ne va ed è felice di andarsene e chi resta ostenta un rassegnato disprezzo  per tutto ciò che ha intorno. Ma questa è un’altra storia.

 

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