Isoke e la sua lotta contro la tratta delle donne nigeriane

 

di Michele Annesanti

 

Ho conosciuto la storia di Isoke Aikpitanyi, sul web, cosi quasi per caso. L’ho conosciuta leggendo alcuni suoi commenti sul profilo facebook di un mio contatto e cosi ho deciso di approfondire la mia conoscenza, se pur via internet, di questa splendida e coraggiosa donna. Vi presento qua la mia intervista, spero possa farvi entrare in contatto con  il mondo di Isoke della sua tremenda Odissea e della sua lotta contro la tratta delle donne nigeriane. Questo può aiutare a noi a comprendere una realtà che fatichiamo a vedere ma che esiste, perché è parte della nostra civiltà, ed è dalla nostra civiltà che viene la “domanda” nel mercato della tratta e poi della prostituzione in cui cadono milioni di esseri umani e può aiutare lei a diffondere la sua voce a quante più persone possibili. 

 Da dove vieni, cosa ricordi della tua infanzia?

Ero una adolescente come tante e sognavo l’Europa. Sognavo di andarci, di trovare un buon lavoro, di migliorare la qualità della mia vita e di poter aiutare la mia famiglia. Le nostre difficoltà economiche erano tali che non avevo potuto completare neppure gli studi primari. Quando mi fu offerta la possibilità di andare a Londra a vendere frutta e verdura, pensai che non potevo perdere quella occasione. E poi io sapevo vendere frutta e verdura, lo facevo al mercato con mia mamma.

 Come sei stata ingannata e da chi?

Pe questo non ebbi subito chiara percezione dell’inganno; arrivai a Londra in aereo, un viaggio comodo e tranquillo, senza controlli di frontiera, tutto sembrava organizzato bene. Solo che a Londra il lavoro non c’era, sentivo le telefonate di chi mi accompagnava: è arrivata la merce. Dicevano e parlavano di me e delle mie quattro compagne di viaggio. Mi dissero poi che a Londra non c’era più lavoro e che dovevo andare in Italia, così mi ritrovai a Torino. Qui, dopo pochi giorni una donna che mi aveva accolta, e che capii più tardi essere la mia maman, mi buttò in strada, malgrado le mie resistenze.

Come hai vissuto in Italia?

Per una ragazza africana, una nigeriana come me, trovarsi in un paese così diverso dal proprio, senza conoscere nessuno, senza conoscere la lingua, senza documenti è un vero dramma. Le sole persone che conosci sono del tuo stesso paese, ma sono quelle che ti hanno fregata. Non è facile liberarsi da quella che è una vera e propria schiavitù, il debito, le minacce, il timore che a disobbedire è la famiglia a pagare le conseguenze.

Come ne sei uscita fuori, chi ti è stato vicino, un’associazione?

Chi mi è stato vicino nella mia ricerca di una via di uscita? Purtroppo non un’associazione, anzi quelle mi hanno respinta perché io non ero pronta a presentare una denuncia, neppure sapevo chi avrei potuto denunciare. Cercai invano l’aiuto di due associazioni, ma non ottenni ascolto. Già conoscevo Claudio, il mio compagno di vita da quasi dieci anni, ma a mettermi nei guai ero stata io e io dovevo tirarmici fuori. Affrontai la maman, le dissi che non avrei più pagato il mio debito e che potevano farmi quel che volevano, ma io me ne andavo.  La sera stessa subii una aggressione e fui quasi uccisa; mi salvò una donna italiana che assistette alla aggressione e chiamò la Polizia. Tre giorni in coma, tre mesi in convalescenza, tre anni per tirarmi fuori dal terrore.

Hai denunciato i tuoi sfruttatori? Se si, loro sono in carcere?

Uscendo dall’ospedale mi rifugia da Claudio e cominciai e rimettere insieme i pezzi della mia vita. Non presentai una denuncia formale, ma insieme a Claudio feci molto di più, feci quel che faccio ancora oggi, cioè denuncio quotidianamente il traffico e i trafficanti. Mi chiedi se io ho denunciato e se i trafficanti sono in galera? La tua domanda è ingenua. A ogni denuncia fa seguito qualche arresto? No, i trafficanti e le maman arrestati sono pochissimi, le pene inflitte loro sono brevi, escono di galera in due anni, e le ragazze che li hanno denunciati se li ritrovano davanti, nella stessa strada, nello stesso quartiere. L’inferno continua. Mio padre che lavorava in Tribunale a Lagos, cercò di capire che cosa mi fosse successo e chi erano i responsabili. La sua ricerca si fermò presto; il traffico degli esseri umani è gestito a livello altissimo, si può fermare e arrestare qualche balordo e qualche violento, ma quel traffico è solo una dei tanti gestiti dalla potente mafia nigeriana, droga, armi, organi, donne.

Adesso come vivi, hai un permesso di soggiorno, sei richiedente asilo oppure hai ottenuto la cittadinanza italiana? E il lavoro?

Non ho chiesto asilo, la richiesta d’asilo è per molte una scappatoia, una ricerca disperata di uscire dalla clandestinità, perché la legge che tutti definiscono una delle migliori in Europa non è tale, e se lo è vuol dire che nel resto d’Europa la situazione è disastrosa. Con i mei documenti ho ancora dei problemi; a Catania una giovane nigeriana è stata uccisa e ritrovata con i miei dati anagrafici. Aveva il passaporto che era stato fatto a me, e che i trafficanti hanno usato per far viaggiare altre ragazze. Quindi non la cittadinanza italiana. Non ho neppure un lavoro, ce l’avevo, poi ho ricevuto così tane richieste di aiuto da ragazze nigeriane, da decidere che dar loro una mano doveva essere la mia missione. Oggi faccio quel che faccio in modo spontaneo e volontario, senza stipendio. Questa è una scelta che ho fatto con Claudio, anche perché per applicare l’articolo 18 della Bossi Fini, che sostiene solo una ragazza su dieci, quando va bene, l’Europa, lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, spendono molte risorse e non ottengono risultati, io ottengo invece, molti risultati e questo mi basta. Certo è che quando è cominciata questa “storia” non avevo ancora 20 anni e ora ne ho 32 e non ho ancora costruito nulla per me, sono ancora e resterò sempre una di loro, una ragazza di Benin City, non potrei dedicare loro solo il mio tempo libro o far loro la carità; in ogni ragazza rivedo me stessa o  una mia sorella.

Parlami del tuo impegno politico-sociale nella lotta alla tratta della prostituzione.

Non ho un credo politico, ci mancherebbe, non sono venuta in Europa o in Italia per partecipare a qualche movimento politico o sociale, credevo che qui ci fossero benessere e felicità per tutti, altro che lotte politiche ed egoismi. La mia lotta non è alla prostituzione, ma alla tratta, sono due cose ben diverse e non capirlo è uno degli errori che impedisce di assicurare vera solidarietà alle ragazze africane. Poi ci sono le rumene, le ragazze dell’est, le latino americane, io sono una affianco alle nigeriane, mi è più difficile rapportarmi alle altre, almeno nel loro momento specifico di aiuto. Poi da donna a donna posso fare quel che tutte le donne, europee comprese, potrebbero fare per le donne migranti, anche se non lo fanno. Contro la tratta mi impegno soprattutto nel mondo nigeriano e africano. Assicuro accoglienza là dove le ragazze sono respinte e cerco di esserne la voce.  Io che non studiato, che non sono una intellettuale e una scrittrice ho dovuto alzare la testa e dire basta, qualcuno lo doveva fare, è toccato a me!

Hai un credo religioso, se si, ti da forza? 

Ho il mio credo religioso, credo che tutte le fedi siano in realtà la stessa fede, riconoscono lo stesso Dio anche se lo chiamano in modo diverso e lo pregano in modo diverso. Ma la mia forza, se ce l’ho, è civile e umana. Ho dovuto darla a me sessa, ho avuto e ho il sostegno di un compagno di vita, di amici e amiche che danno a me e alle ragazze la solidarietà che le istituzioni scrivono solo nei documenti e nelle procedure burocratiche. Giro l’Italia per dire una verità scomoda, presto inizierò a raggiungere anche città europee e andrò in Nigeria e battere i pugni. Non posso dirti altro, per tentare di rispondere alle tue stesse domande ho scritto due libri, partecipato a programmi radio e tv, ho accettato decine di interviste con i media. Non è bastato a dir tutto, spero di esser riuscita, almeno, a darti elementi per poter parlare e scrivere di me e delle mie ragazze.

Questo è l’indirizzo mail, [email protected], se qualcuno vuol sapere di più o dare ad Isoke una mano. 

 

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