Il mio ricordo vivo

di Michele Annesanti

L’ho incontrato più di un anno fa in una notte di ottobre, seduto sulle scale di una Chiesa antica con la schiena appoggiata al portone, il vento soffiava forte e con se portava dei piccoli fiocchi di neve. Venivano da lontano, e gli danzavano intorno come se gli volessero sussurrare delle parole di conforto, ma parevano solo cattivi consiglieri. Accanto a lui c’era una ciotola con dell’acqua riscaldata, delle verdure bollite e dei pezzettini di pane oramai intrisi, era il suo pasto, era il bene più prezioso che in quel momento possedeva. La sua barba lunga di due settimane lo difendeva dal freddo pungente sulle guance, ma le mani nude soffrivano, non le poteva tenere coperte, con dei guanti o nelle tasche perché erano in movimento. Gli servivano per scrivere poi sfogliare un libretto che si consumava tra le righe, parevano l’unica cosa viva di quel corpo. Era solo li con se stesso, si accorse di me solo quando si rese conto di essere debole. Era assorto nei pensieri sull’esistenza di Dio, dell’inspiegabile dono che è la fede, eppure gli sfuggiva un particolare scabroso, ancora. Cosa stava sperimentando in quel momento? Il tempo si era perduto fra le piante del bosco che circondavano la Chiesa, quel buio poteva nascondere delle insidie, bestie feroci pronte a sfamarsi della sua gelida carne, ma nulla lo spaventava più dell’idea di vedere dentro, anche solo di sbirciare da dietro un velo, quel mondo più nero di tutto quello che lo circondava. Nemmeno Dio lo poteva accompagnare in quel viaggio che lo portò diritto da me …

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