Ce lo meritiamo, Il sol dell’avvenire

di Arnaldo Casali

L’entusiasmo esagerato ostentato oggi per Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti è speculare alle critiche feroci rivolte due anni fa a Tre piani. E dimostra che il pubblico italiano si merita produttori che scelgono sempre gli stessi attori, registi che raccontano sempre le stesse storie, e attori che si ripetono fino a diventare la parodia di sé stessi.

Perché il pubblico italiano – anche quello che cinefilo, anche quello che crede di essere esigente – dal cinema chiede conferme, non provocazioni. Preferisce l’usato sicuro alla sperimentazione, predilige chi scimmiotta Fellini a chi propone un linguaggio nuovo, ambisce alla minestra riscaldata, non all’innovazione.

Come chiediamo a Carlo Verdone di rifarci all’infinito i suoi personaggi, così chiediamo a Nanni Moretti di rifarci sempre il suo personaggio, per farci divertire con le nostre sicurezze e un pizzico di nostalgia. Se osano qualcosa di nuovo, affiliamo subito i coltelli; se si autocelebrano li portiamo in trionfo.

Sia ben chiaro, che anche a me Il sol dell’avvenire è piaciuto molto più di Tre piani. E grazie al cavolo, aggiungerei. Da una parte abbiamo spettacolo puro con set sontuosi, costumi, circo, elefanti e trapezisti, e soprattutto una risata dietro l’altra. Dall’altro abbiamo un mattone tragico, angosciante e pessimista, in cui le uniche magre risate le regala (involontariamente) la recitazione di Moretti.

Ma da qui a parlare di capolavoro per il primo e passo falso per il secondo ce ne vuole.

Il “messaggio” del Sol dell’avvenire è quanto di più banale ci si possa aspettare dall’autore di Palombella rossa, la poetica è qualcosa di visto e rivisto, la sceneggiatura piena di lungaggini che non perdoneremmo a nessun altro. Nanni non vuole che venga definito un “testamento” e ci auguriamo che non lo siaanche perché da un testamento artistico ci si aspetta qualcosa di più che una esasperata autocelebrazione e vecchi cavalli di battaglia ripetuti fino allo stremo.

Il Sol dell’avvenire sta alla produzione di Nanni Moretti come Luci della ribalta sta a quella di Charlie Chaplin.

Ma Luci della ribalta è un capolavoro! Obietterete voi. Certo, lo è, se non avete visto Monsieur Verdoux Un re a New York, opere molto più coraggiose e innovative, anche se meno nelle corde di Charlot.

No, più che un testamento artistico Il sol dell’avvenire è una festa di compleanno. Se per festeggiare la nascita del figlio Nanni aveva girato Aprile, per solennizzare i suoi 70 anni ha girato questo film in cui – letteralmente – si fa la festa e se la gode.

Inevitabile che faccia godere anche – e non poco – tutti i suoi amici. Mentre non stupisce che chi si avvicina a questo film senza essere un devotissimo ammiratore del regista autarchico, possa trovarlo insopportabilmente narcisista e autoreferenziale.

Dalle dissertazioni sulle scarpe alle canzoni cantate in macchina, dai balletti al disprezzo per i colleghi, dal musical alla crisi del comunista, dal metacinema  alle passaggiate per Roma in scooter, dal nuoto ai dolci alla psicanalisti, Il sol dell’avvenire è una vera e propria “summa” del cinema morettiano, con autocitazioni da quasi tutti i suoi film (soprattutto Sogni d’oro di cui è una sorta di seguito, ma anche Palombella rossaCaro diarioLa stanza del figlio) con tanto di passerella finale – nientemeno che in via dei fori imperiali – di (quasi) tutti i suoi attori.

Se il film vede il ritorno – dopo 16 anni – di Silvio Orlando (vero e proprio alter ego di Nanni, nei suoi film quasi ininterrottamente dal 1989 al 2006), Margherita Buy (sempre comprimaria a partire dal Caimano) e Jerzy Stuhr (alla sua terza presenza), nel gran finale tornano non solo i fedelissimi come Jasmine Trinca e Dario Cantarelli, ma anche vecchie e vecchissime conoscenze come Alba Rohrwacher, Renato Carpentieri, Gigio Morra, Lina Sastri e persino l’ex moglie Silvia Nono e Fabio Traversa, compagno di scuola e interprete dei suoi primi due film, già tornato in formato nostalgico nel 1989.

Insomma questa è un’opera di altissimo intrattenimento, laddove Tre piani era pura sperimentazione, il riavvolgimento completo sul suo ego laddove Tre piani segnava il punto più lontano raggiunto da Nanni Moretti nella presa di distanza da sé stesso.

Un percorso iniziato venticinque anni fa dopo venticinque anni di carriera. Archiviato il delirio autolatrico di Aprilequasi a far tesoro del consiglio di Dino Risi (“quando vedo una sua opera, mi viene da dire: ‘scostati, ragazzo, e fammi vedere il film’”) Nanni Moretti ha cercato per vent’anni di farsi da parte come autore (con La stanza del figlio) e come attore (Il caimano, Habemus Papam, Mia madre). Con Tre piani, per la prima volta, ha fatto entrambe le cose, adattando un romanzo e tenendo per sé una piccola parte in un’opera corale.

L’accusa più ripetuta dalle critiche, alla sua uscita (ritardata di un anno causa Covid) fu quella di aver tirato fuori un film che non era affatto morettiano. Allo stesso modo oggi il pubblico – anche quello che crede di essere intellettuale – gode nel trovare in Il sol dell’avvenire esattamente quello che si aspettava: e cioè il solito caro vecchio Nanni Moretti, con tutti i suoi tic, le sue fissazioni, i suoi pipponi buffi, i balletti improbabili e le canzoni cantate male.

Per Nanni Moretti Il sol dell’avvenire segna dunque un trionfo, ma anche una resa.

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