SALUTO AL PAPA CHE VIENE

di Primo Mazzolari

Non so i tuo nome di ieri, né quello di domani: il nome che ti ha dato la tua mamma, il nome che tu stesso dovrai darti in quell’attimo non breve di sbalordimento e di umiliazione che seguirà la tua accettazione: il nome destinato a portare nella storia, come nella vita, il grosso fardello delle tue responsabilità di uomo in funzione ultra umana.

Non conosco il tuo volto, non oso sceglierlo tra le cinquantadue immagini che dalle pagine dei giornali sembrano quasi in attesa della condanna capitale più che dell’onore supremo.

Come non mi riguarda il tuo nome di ieri, così non m’importa il tuo volto. Le parole comuni, come i comuni sentimenti di preferenza o di simpatia non hanno più senso per uno che ha finito d’avere un suo cuore, un suo pensiero, una sua strada, per divenire il cuore, il pensiero la strada della Chiesa.

Ognuno ti darà la faccia che vuole. La radio non avrà ancora finito d’annunciare al mondo il tuo nome di ieri e di domani, che milioni di uomini ti avranno già ricostruito a loro immagine, imprestato un disegno, catalogato con questi piuttosto che con quelli. Il tuo passato verrà frugato e perquisito da tutti. Dagli episodi più futili, dai gesti più comuni, dalle parole più insignificanti, dagli scritti, dai gesti… si trarrà l’oroscopo o il materiale per ricomporre, su misura di ognuno, la tua figura, mentre tu non sei più del tuo passato, sei uscito per sempre dalla tua parentela, dalla tua tribù, dalla tua nazione.

Coloro stessi che scrivono: “Lo giudicheremo dai fatti” hanno più decisamente degli altri fissato il programma del tuo pontificato, tracciato la strada che devi camminare se vuoi essere un Papa secondo il cuor loro. La riserva non è che un’ipocrita saggezza per aver maggior diritto di sentenziare a la prima occasione: “L’abbiamo detto: non poteva fare diversamente”.

Non hai ancora parlato e già le cancellerie di tutti i paesi hanno preso posizione nei tuoi riguardi.

Né il titolo né l’animo di “pastor et nauta” ti salverà dall’essere coinvolto, tuo malgrado, nei loro disegni. Più evangelico sarà il tuo pensiero, più staccato il tuo animo da ogni terrestre competizione, più alieno da compromessi, più sgombro d’ogni misura di dominio, più spirituale il tuo richiamo, più paterna ed accorata la tua parola,  e ben più duramente verrai giudicato dagli stessi che invocavano un papa unicamente spirituale. Nulla di più fastidioso, nulla di più sconcertante, nulla di più discriminante nei riguardi dei nostri poveri pensieri, che un pensiero unicamente rivolto verso l’Eterno.

Un uomo, non vestito alla maniera di tutti gli uomini, è inafferrabile. Un uomo che non conosce gli interessi terreni, che non ha nulla da difendere sul piano dell’effimero, che vuole soltanto un po’ di Cielo, su questa povera terra, è assai pericoloso specialmente per chi vuole una terra senza Cielo.

I giornali, che non sanno ancora nulla di te, tengono in redazione, già pronte, cartelle su cartelle per il numero straordinario. Come avviene di certi panegirici, basterà cambiare o aggiungere il nome. Le stesse vuote espressioni, gli stessi omaggi rimati, gli stessi auguri: così nei giornali come nei telegrammi e nei messaggi che t’arriveranno d’ogni parte del mondo e che tu non leggerai, come non leggerai le risposte che pure porteranno il tuo nome o che verranno date in tuo nome.

Ti vestiranno con vestiti non confezionati per te: sarai salutato con parole che possono essere dette anche ad un altro, perché tu non hai più nulla di tuo, non sei più nulla per te: prendi tutto da quella divina cosa che tu rappresenti, la quale ti fa grande e ti annichila.

Ti guardi attorno. Chi potrà fissare le smarrimento del tuo occhio. Facce nuove, facce forestiere anche se ossequiose. Perfino l’uomo di fiducia che t’ha seguito in conclave, non ti sorride più. Anch’egli  è come oppresso e allontanato dalla tua nuova dignità che gli impedisce di poterti accostare come prima. E gli altri, codesto piccolo mondo che ti preme, che t’inchina, che vuol leggere dentro di te, indovinare… cosa vuole da te? Raccattatori di briciole, collezionisti di vanità variopinte, o mani che ti sapranno aiutare, cuori che ti sorreggeranno?

Ti seguo mentre ti portano sulle loggie per la tua prima benedizione urbi et orbi.

Non osi guardare già, alla folla: è un mare, come quello che tu hai dentro.

Stendi la mano, tracci il segno divino… Nell’istante, ti cerchi anche il cuore per donarlo.. Te l’hanno rubato: è già per il mondo, ovunque è un’anima…

Tutti ti hanno derubato: sei il Derubato.

Vengono a prendere commiato – perché tu solo resti – coloro che t’hanno designato al potere, senza comunicartelo. Tu li vorresti abbracciare, non per ringraziarli, ma per farti perdonare d’aver accolto la loro designazione, per implorare l’aiuto della loro fraternità… Non lo puoi perché il cerimoniale te lo vieta.

Il cerimoniale! E tu resti col tuo desiderio…

Adesso sei solo, finalmente solo: la solitudine che può aiutare a portare questo deserto… Tacciono le campane, la piazza: tace l’omaggio. Finalmente sei solo nelle Camere. Solo con la tua anima che s’affaccia sul domani, divenuto dovere, responsabilità davanti ai secoli, davanti al mondo, davanti alla  Chiesa, davanti a Dio: custode d’una fede, d’una speranza, d’una carità più grande d’ogni più grande anima, più vasta d’ogni più vasto pensiero, più salda d’ogni più salda volontà.  Per questo sei fatto roccia, senza cessare d’essere un cuore, un povero cuore di carne.

Fuori sei grande, sei simbolo, sei voce, sei pastore, sei pietra… Qui, in questo momento, come ti vede il mio cuore, non sei che un uomo, un uomo in preghiera, un questuante, un naufrago in cerca di scampo.

Hai bisogno di Dio. Avresti bisogno anche della tua mamma (tu non lo dici: io lo so lo stesso) d’una carezza sulla tua fronte riarsa. Voglio richiamarla per te e per… me.

Non posso vederti così solo, così sperduto in questo palazzo che ti appartiene come apparteneva a Gesù l’orto degli Ulivi… sono gli ultimi anni della tua vita: ognuno ha diritto di passarli in pace. Voglio che qualcuno ti sia vicino, qualcuno che ami come uomo, come amico, come fratello, come figlio.. Perché sei rimasto “un figliolo” anche sotto la tua universale paternità e ti darebbe animo quella voce che ha più gioia e riposo e gloria della voce di tutti i poeti e delle formule di omaggio di tutti i cerimoniali: ti darebbe animo se ti dicesse ancora una volta, proprio questa sera: “El me putèl, el me pover putèl!”.

Ma io non conosco la parlata della tua mamma e le ho imprestato quella della mia: tu però la ricordi bene, te ne ricordi l’accento, l’inflessione, quella morbidezza ineffabile che sa mettere una mamma nella parola più comune…

Così, soltanto così, segnato dalla carezza di questo ricordo, potrai addormentarti e, domani, andare incontro al mondo, guidato dalla luce divina che ti fu promessa e dalla mano di tua mamma che non può mancare.

Pietra e cuore, padre e figliolo. Così ti saluta questo povero prete dal fondo del suo presbiterio: così ti salutano migliaia e migliaia di anime umili e semplici che, abbagliate da nessun fasto, impedite da nessun clamore, pensano a te, nella loro preghiera affettuosa, come al figliolo che adesso gli pesa sul cuore questo povero e tragico mondo, ha tanto bisogno di essere sorretto e amato.

(da Adesso del 1 novembre 1958)

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