Vincenzo Paglia, dal successore di San Valentino al “patrono” della famiglia

di Arnaldo Casali

La colomba si è voltata, nello stemma araldico di Vincenzo Paglia: se nel becco tiene ancora il ramo d’ulivo, ora non si presenta più di profilo, come nel logo della Comunità di Sant’Egidio (mutuato, a sua volta, da un disegno di Pablo Picasso del 1961 e ripreso anche da Leon Lemmens, vescovo ausiliare di Bruxelles) ma guarda negli occhi l’osservatore.
Se le nappe del cappello episcopale sono aumentate (12 nello stemma da vescovo, 20 in quelle da arcivescovo, mentre quelle dei cardinali sono 30) rimane centrale il simbolo della pace, che il successore di San Valentino continua a considerare la sua “fissa”.
D’altra parte se nei suoi dodici anni da vescovo di Terni, Paglia ha cercato di togliere al protettore degli innamorati la connotazione di figurina sdolcinata e commerciale per farne il patrono della pace e dell’amore nel senso più nobile e ampio del termine, il suo predecessore in Vaticano – il cardinale colombiano Alfonso López Trujillo, presidente del dicastero dal 1990 al 2008 – a Terni nel 2006 aveva detto di voler fare proprio di Valentino il santo patrono della famiglia.
Il suo ultimo atto come vescovo di Terni è stata la consegna del premio San Valentino all’arcivescovo di Sarajevo Vinko Pujlic. Sei mesi dopo, il suo primo impegno da presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia è stato l’incontro internazionale “Vivere insieme è il futuro” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio proprio a Sarajevo.
«Possiamo dire che San Valentino è sbarcato anche a Sarajevo. Io mi auguro che adesso possa continuare ad allargare la sua presenza e la sua ispirazione, perché non c’è dubbio che solo un amore che dura, solo un amore – permettetemi di dire – che è forte come l’acciaio inossidabile può salvare il mondo dalla catastrofe e nello stesso tempo può aiutare il mondo per un futuro più sereno e giusto per tutti».
Lei è stato successore di San Valentino come vescovo di Terni, ora lo è – in qualche modo – anche come “patrono della famiglia” nella Chiesa. Come si lega la famiglia al tema della pace?
«La famiglia alla pace si lega in tanti modi: innanzitutto riuscendo a comprendere che l’amore che si vive in famiglia offre la grammatica ai figli per parlare e vivere di pace;  l’armonia tra diversi che si vive nelle famiglia – tanto in quelle ordinarie, quanto in quelle miste, dove i due sposi appartengono a confessioni diverse – ecco quest’armonia può essere una sorta di piccolo fermento di pace tra i popoli».
Il tema dei matrimoni misti è particolarmente sentito a Sarajevo, dove per secoli hanno convissuto – sposandosi tra loro – serbi ortodossi, bosniaci musulmani e croati cattolici.
«Sarajevo ha raccolto tutta la tragedia del secolo scorso: nel 1914  qui scoccò la scintilla della prima guerra mondiale e in certo modo si chiuse qui, con il dramma della guerra balcanica, un secolo di violenze. Ecco perché – a vent’anni dall’inizio di quella guerra – tornare a parlare di pace rappresenta la volontà da parte di tutti di intraprendere un nuovo cammino. Per la prima volta, all’incontro di Sarajevo, il patriarca serbo si è confrontato con gli esponenti delle altre religioni e io credo che la semina di questi giorni sia stata il segno di una nuova primavera di rapporti tra credenti, tra uomini di buona volontà e di rapporti tra i popoli. Per tanti secoli Sarajevo è stata crocevia di incontri: oggi può testimoniare all’Europa e al mondo che è possibile vivere insieme, in pace, tra diversi».
Lei al tempo della guerra era parroco di Santa Maria in Trastevere ma già impegnato su fronti internazionali.
«Ricordo il suono delle sirene dei bombardamenti che non avevo mai sentito nella mia vita. Ricordo i boati delle bombe, i colpi secchi dei kalashnikov e devo dire che tornare oggi e vedere che si può camminare serenamente senza nascondersi, indubbiamente mi ha fatto un’impressione molto forte».
Ha trovato molto cambiata la città?
«Radicalmente, anche se non dobbiamo dimenticare che molto lavoro resta da fare, perché i guasti provocati dalla guerra non sono finiti, e purtroppo nella comunità innternazionale la visione di questi luoghi è ancora flebile e appannata. C’è bisogno – ma questo riguarda un altro aspetto – che la politica internazionale abbia una nuova visione su tutti i balcani. Mi fa una grande tristezza talvolta ascoltare applicata in altre regioni del mondo la terminologia di “balcanizzazione” per indicare i conflitti. C’è bisogno che da Sarajevo riparta un significato diverso. Balcanizzazione deve poter significare una convivenza pacifica tra popoli diversi».

(da Il Giornale dell’Umbria del 26 settembre 2012)

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