Ulay è stato un gigante. Ma ha sdoganato troppi cialtroni

di Arnaldo Casali

Ulay è stato un gigante. Però – si può dire? – lui e Marina Abramovic hanno sulla coscienza intere generazioni di nullafacenti che, volendo fare gli artisti e non sapendo fare niente, si sono improvvisati performer. A nostre spese.

Ovviamente non si può giudicare un artista solo in base ai suoi più miserabili emuli, questo è ovvio. Io – con tutto il rispetto – metto in discussione il concetto stesso di arte che Abramovic e Ulay hanno sdoganato.

Contesto l’idea che l’arte non sia una forma artistica ma una provocazione o un esperimento, contesto l’idea che l’arte, anziché esprimere bellezza, raccontare una storia, comunicare un’emozione, debba trasmettere disagio, dolore, sofferenza; contesto l’idea che l’arte non sia il prodotto di un’artista, ma sia l’esperienza vissuta dall’artista, l’idea che l’artista stesso e la sua vita siano arte.

E ovviamente contesto l’idea che l’artista sia chi si considera tale e come tale produce “arte” anche semplicemente inscatolando la propria merda, attaccando una banana al muro o sedendosi a un tavolo e guardando negli occhi una persona.

Contesto tutto questo, perché è un’idea dell’arte che non mette al centro l’opera ma “l’idea” la “trovata”, o magari il corpo dell’artista, la sua fatica, la sua resistenza fisica, le sue emozioni. Oltre che – ovviamente- le sue conoscenze, le sue entrature, i contatti che – legittimandolo – lo rendono artista. Perché, sia ben chiaro, che se al tavolo a guardare la gente negli occhi mi ci metto io, o la banana ce la attacco io al muro con lo scotch, questo non fa certo di me un artista.

La Pietà di Michelangelo è un opera d’arte a prescindere che si trovi nella Basilica di San Pietro, nel Louvre, nel giardino di casa mia o in una discarica. La Fontana di Duchamp, invece, diventa arte quando finisce in un museo, altrimenti è un semplice pisciatoio.

Questo fa si che si configuri come arte non qualcosa di bello ma qualcosa di inaudito il che porta, da una parte, a inventarsi – per dirla alla ternana – “le peggio cose” pur di farsi notare, dall’altra allo scimmiottamento dei “giganti” da parte dei nanerottoli che affollano i nostri festival. E i festival stessi diventano “creatori d’arte” proponendo come opere d’arte performance che – in altri contesti – sarebbero cabaret, goliardate, casi umani.

Per quasi quindici anni ho seguito  il festival della “Creazione contemporanea” che si svolgeva a Terni, dove si sono avvicendate molte generazioni di artisti e sedicenti tali, e in tanti anni di frequentazione di teatro di avanguardia ne ho visti troppi di “artisti” che stavano fermi a guardarti in faccia, che si rotolavano per terra, che roteavano piselli.

E sia ben chiaro che se frequentavo certi spettacoli è perché l’arte sperimentale mi piace, e in tanti anni ho visto opere geniali e di grande impatto che ancora mi porto dietro. Ma un conto è andare oltre gli schemi e fare una ricerca artistica, un conto è pensare che non per fare arte non serva un’opera ma un artista.

La responsabilità di Ulay e Abramovic è stata quella di aver sdoganato un concetto di arte che travalica l’espressione artistica e si configura, piuttosto, come esperimento e provocazione. Se questo concetto – a mio avviso – è discutibile anche ad alti livelli (perché presuppone che sia arte ciò che è fatto da un artista e non viceversa) diventa insostenibile quando quando viene scimmiottato da figli di papà senza – è proprio il caso di dire – arte né parte che pensano che rotolarsi per venti minuti in una scatola di plexiglass o pisciare su un palcoscenico, o guardare fisso lo spettatore senza dire niente o emettere suoni gutturali per quaranta minuti sia arte.

Un conto è sperimentare, un conto è sostituire la performance con il performer.

Nel celebre incontro del MoMa io indubbiamente trovo amore, trovo una storia, trovo commozione, ma certo non arte. Non più di quanta non ne trovi in qualsiasi incontro tra due ex. D’altra parte un artista incontra la propria ex e – attraverso la mediazione artistica – trasforma la vita in un’opera d’arte: un romanzo, una canzone, una sinfonia, un film, un quadro, una scultura. Marina Abramovic incontra il proprio ex e si pretende che quell’incontro stesso sia arte.

Si ritiene che il togliere di mezzo la mediazione artistica sia essa stessa arte.

Chiariamoci: non sto contrapponendo l’arte classica all’arte di avanguardia: non sono così ottuso da pensare che i pittori debbano dipingere tutti come Caravaggio. Il punto è che i caravaggisti forse non sono grandi artisti ma sono pittori. Io invece parlo di chi, semplicemente, non è nulla ma pensa di essere un artista. Un tempo l’artista era chi praticava un’arte, oggi è chi so autodefinisce tale e trova qualcuno che lo asseconda.

Ma sia chiaro che non penso che l’arte sia solo quella fatta col pennello e lo scalpello, perché  allora non sarebbe un artista nemmeno Burri, né tanto meno sono tra quelli che dicono che la musica prodotta dai DJ non è degna di chiamarsi tale perché non è suonata con gli strumenti tradizionali. Io stigmatizzo, piuttosto, la confusione tra arte di avanguardia e mera provocazione: un conto è un’opera d’arte realizzata con strumenti non convenzionali (vedi Burri, vedi i dj eccetera) un conto è la merda d’artista (opera geniale ma certo non arte), la banana di Cattelan e tutta la cosiddetta arte performativa. Allo stesso modo, un conto sono i Chainsmookers, un conto Achille Lauro.

Ho visto cose che voi umani non potete immaginare: filmini delle vacanze girati a cazzo e fatti passare per installazioni, sagra della salsiccia venduta come provocazione postmoderna, per non parlare delle valanghe di Polaroid sfocate assurte ad arte contemporanea.

L’arte ha bisogno delle sue avanguardia, ma come dicevo a proposito di Achille Lauro, Picasso non si è inventato il cubismo perché non sapeva disegnare.

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