Teniamoci stretti i nostri cervelli.

 

di Michelle Crisantemi

Ogni anno circa 60.000 giovani scelgono di fuggire dall’Italia in cerca di nuove e migliori opportunità all’estero. Se si calcolano poi i dati non ufficiali, il numero di espatri annui si aggira intorno a 120.00. Brain drain, fenomeno più comunemente conosciuto come fuga dei cervelli. Con essi se ne va gran parte del “capitale umano” dell’Italia, termine utilizzato per indicare le conoscenze dei singoli. Ciò, soprattutto in un momento di crisi, rappresenta per il nostro Paese una perdita INESTIMABILE, se si considera che la spesa per la formazione per ogni singolo laureato si aggira tra i 300.000 e i 400.000 euro. Un fenomeno che in un primo momento ha riguardato soprattutto la ricerca, visto che le borse di dottorato che vengono date in altri Paesi sono più alte di quelle che vengono assegnate in Italia. Basti pensare che tra i primi 100 ricercatori italiani, 1 su 2 decide di andare all’ estero. Ma il fenomeno della fuga di cervelli non è circoscritto a questo ambito. Molti sono i giovani neolaureati che trovandosi nell ’impossibilità di trovare un lavoro consono ai loro studi, decidono di espatriare. Un fenomeno di certo acutizzato dalla crisi economica e che non riguarda solo il nostro Paese. “Siamo la generazione più preparata di sempre, ma che vivrà peggio dei propri genitori”, questa dichiarazione è ormai da anni il cavallo di battaglia della piattaforma Juventud sin futuro, che in Spagna ha dato vita alle prime manifestazioni che hanno portato alla nascita del movimento degli indignados. Chi in Italia è nato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 ha sperimentato fin da giovanissimo una condizione di precarietà: da studenti precari molti di questi giovani sono ora lavoratori precari, o addirittura disoccupati, con la prospettiva di lavorare da precari almeno     quarant’ anni della propria vita, in vista di una pensione sempre più lontana, incerta e misera. In un momento in cui l’Italia si sta concentrando sulla preoccupante perdita di capitale economico e tecnologico, non ci si rende conto che il danno maggiore sta venendo proprio dalla perdita di questo capitale umano. Il nostro Paese è sempre più vecchio (anche demograficamente parlando) e meno competitivo, non solo perché non è in grado di tenersi i propri talenti che invece sono ben valorizzati all’ estero, ma anche perché non ha la minima capacità di attrarre studenti da fuori. Sicuramente uno dei principali problemi italiani è che persiste una divisione, e a volte incomunicabilità, tra il mondo dell’istruzione e quello lavorativo. Molto spesso il problema è che si punta troppo sulla teoria e poco sulla pratica, per cui i nostri studenti riescono a preparare esami anche di 3.000 pagine, mentre altri stranieri vanno in crisi con solo 200, ma ci ritroviamo studenti di medicina che svolgono nel corso di un anno accademico due settimane o poco più di tirocinio all’ anno. Bene attuare provvedimenti che stimolano i giovani a laurearsi in corso, bene far pagare tasse più alte a chi è economicamente più stabile per poi aiutare quei studenti che non hanno mezzi, ma se poi questi giovani si trovano a dover addirittura nascondere di essere laureati per poter svolgere lavori da baristi e camerieri perché di meglio non riescono a trovare, c’è senza dubbio in Italia un problema maggiore dello spread. Molto c’è da fare, sia a livello di riorganizzazione e di modernizzazione dei corsi universitari, sia a livello di politiche sociali che investano nei nostri giovani, anche favorendone la formazione               all’ estero, ma creando un ambiente stimolante e competitivo che riesca ad evitare che i talenti non rientrino in Italia. L’Italia era un Paese a crescita zero già prima dello scoppio della crisi economica, per questo non è di certo auspicabile un ritorno alla situazione antecedente il 2007.  In momenti difficili bisogna fare dei sacrifici, è normale, ma bisogna fare anche scelte coraggiose che possano trasformare una caduta in una slancio verso una meta più alta.

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