Sulla pelle di Stefano Cucchi

di Arnaldo Casali

Sulla mia pelle è uno dei film italiani più importanti degli ultimi anni, e – devo dire – anche dei più belli.

Innovativa la forma di distribuzione, che ha creato tante polemiche ma si è rivelata vincente (nonostante la trasmissione su Netflix in contemporanea con l’uscita nelle sale, sta ottenendo un grande successo, e anche stasera al Politeama Terni c’erano parecchie persone – segnalo a questo proposito un’analisi molto interessante del Fatto Quotidiano, che peraltro mi rincuora come direttore di festival https://www.ilfattoquotidiano.it/…/sulla-mia-pelle…/4636621/), prezioso il genere, molto frequentato in America ma pochissimo in Italia (la ricostruzione fedelissima di un fatto di storia contemporanea), incredibile sotto il profilo cinematografico (Alessandro Borghi da Oscar, Jasmine Trinca impeccabile, Max Tortora sorprendente in un ruolo drammatico), e ovviamente, cruciale lo spaccato sui pestaggi – e i depistaggi – in carcere, che negli ultimi quindici anni ha portato a morti tragiche come quelle di Giuseppe Uva, Federico Aldovrandi, Aldo Bianzino e Stefano Cucchi, di cui il film ricostruisce la tragica vicenda.

Va detto che, a dispetto di quanto ci si sarebbe aspettato, l’opera di Alessio Cremonini non si presenta come una denuncia nei confronti dei Carabinieri, né tanto meno come un attacco alle Forze dell’Ordine.

Il film non ha nulla di ideologico: è piuttosto un tragico affresco neorealista su una realtà di profondo degrado.

La denuncia è soprattutto nei confronti di una burocrazia disumana che impedisce alla famiglia di visitare suo figlio in carcere e che – addirittura – notifica la morte alla madre con la richiesta di autorizzazione all’autopsia.

La violenza bestiale subita dal giovane spacciatore non ha volto così come non ha un perché: non viene mostrata, così come non viene spiegata.

Dopo quell’assurdo episodio, Stefano rimane vittima della burocrazia, sì, di un certo arrogante menefreghismo e di tanta omertà: omertà di cui, però, il primo promotore è la vittima stessa, che rifiuta di denunciare gli aggressori anche quando si trova ormai al sicuro, rifiuta le cure, mantiene un atteggiamento incoerente e si lascia, di fatto, morire.

Bisogna dire che il film, in realtà, non mostra Stefano solo e abbandonato come ci è stato spesso raccontato: sono tante le persone che, nella pellicola, si prendono cura di lui e cercano – inutilmente – di aiutarlo: gli stessi carabinieri, la polizia penitenziaria, gli infermieri, i medici.

Quando si leggono gli atti dei processi le cose, in realtà, cambiano un po’: uno dei carabinieri che ha testimoniato è arrivato a denunciare pubblicamente le intimidazioni e gli atteggiamenti persecutori che avrebbe subito da parte dei suoi superiori. Tanto che alla fine viene persino il dubbio che il regista abbia voluto – diplomaticamente – addolcire un po’ la realtà. Ma di certo l’apprezzamento che la pellicola ha ricevuto da parte di Ilaria Cucchi lascia pensare che, nella sostanza, l’opera si sia mantenuta molto fedele alla storia che si proponeva di narrare. E davvero non è poco.

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