Santiago, Italia

di Arnaldo Casali

In un filmato d’epoca il cardinale Raúl Silva Henríquez dice a un giornalista: “Non si è mai visto un governo che fa la guerra al proprio popolo. Ma questo è quello che sta succedendo qui”.
Poi, uno dei testimoni intervistati da Nanni Moretti, mentre parla di lui si commuove.
“Perché piangi?” chiede Moretti.
“Io sono completamente ateo: ma era un uomo che difendeva i poveri”.

E’ l’immagine che mi è rimasta più impressa di questo documentario bellissimo. Bellissimo perché fatto tutto di parole, di racconto, di testimonianze.

“Quando vedo un lavoro di Nanni Moretti – diceva Dino Risi – mi viene sempre voglia di dirgli: spostati e fammi vedere il film”.

Ecco, quando gira un documentario, Nanni, si sposta. Ed è così sin dai tempi di “La cosa”: non solo non appare sullo schermo, ma non fa sentire la sua presenza nemmeno con virtuosismi registici o vezzi.
E’ difficile oggi, trovare un documentario fatto di parole: per paura di essere televisivi, per distinguersi dai giornalisti, per far sentire la propria creatività i registi spesso ci propinano pipponi insostenibili con scene di vita quotidiana riprese nel silenzio (il tizio che fa il caffè, il tizio che pensa, il tizio che guarda il mare) qualche volta addirittura artefatte (vedi Fuocoammare).

Nanni, che non deve dimostrare niente, fa delle interviste. Semplici interviste: camera fissa, il tizio che parla e le inframezza con immagini di repertorio. La voce dell’intervistatore si sente raramente: solo quando interloquisce con l’intervistato; e il volto si vede solo due volte, all’inizio e quando un militare – accusato di essere un assassino e un torturatore – gli chiede rassicurazioni sul fatto che la sua testimonianza non verrà inserita in un contesto di parte. E Nanni risponde: “Io non sono imparziale”.

Non è imparziale, Nanni Moretti, e non ha mai preteso di esserlo. E’ stato onestamente di parte per tutta la vita, e anche questa volta, da comunista intervista altri comunisti: le testimonianze sono di militanti che hanno sostenuto o affiancato Allende e sono stati perseguitati dal regime di Pinochet, trovando rifugio prima nell’ambasciata italiana (una storia incredibile: 250 rifugiati che vivevano insieme, ospiti dell’ambasciatore, dopo aver scavalcato il muro della villa) e – successivamente – sono immigrati in Italia, dove hanno trovato, raccontano, una meravigliosa accoglienza, lavoro e integrazione.

Il film è al tempo stesso una bellissima lezione di storia e una riflessione sull’attualità.

Perché sono gli stessi rifugiati cileni a tracciare un parallelo tra la loro storia e quella dei rifugiati che in Italia ci arrivano oggi dall’Africa. Loro, raccontano, erano stati accolti con tutti gli onori: il PCI gli aveva subito trovato lavoro, e in Italia c’era un fortissimo movimento di solidarietà con le vittime di Pinochet.

Se pensiamo ai rifugiati di oggi fa impressione scoprire che non solo non abbiamo nessuna solidarietà con la loro battaglia, ma non sappiamo nemmeno da che cosa fuggono. Allora c’erano manifestazioni di piazza per il Cile (nel film si vede anche un grande concerto degli Inti Illimani) oggi non abbiamo neppure una vaga idea della situazione politica dei paesi da cui arrivano, non sappiamo nemmeno che paesi sono e confondiamo i rifugiati con i migranti economici, i clandestini.. tutti diventano semplicemente dei “disperati”.

Ma, a mio avviso, non è che siamo diventati semplicemente più cattivi, chiusi, indifferenti. Il punto è che, nel frattempo, sono crollate le ideologie, e con esse l’idea stessa di una fratellanza universale nel nome di un ideale.

I cileni venivano aiutati dagli italiani non perché gli italiani fossero buoni e accoglienti, ma perché quelli erano “compagni”, e combattevano Pinochet come loro – o i loro padri – avevano combattuto il fascismo.

Eppure fa impressione sentire cileni parlare così bene di quei governi italiani di cui – finora – avevamo sentito parlare solo male. Perché parliamo dell’epoca d’oro della Democrazia Cristiana: quella DC delle “stragi di Stato”, dei segreti, dei misteri, che ci è stata descritta come il più grande male del dopoguerra.

Grande Nanni. Adesso però rimettiti al centro dello schermo. Perché, come ti chiedeva Daniele Luchetti in “Aprile”, “quant’è che non fai un film vero?”

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