Perché l’accoglienza è diventata accoglismo

di Arnaldo Casali

Il fatto che l’iniziativa delle magliette rosse, nata come appello per un ritorno all’umanità, abbia generato un coro di polemiche e una valanga di sarcasmo, l’idea che il colore della maglietta indossata da un bambino morto in mare abbia evocato solo una vecchia ideologia politica, il fatto che anziché pensare alle centinaia di persone che affogano fuggendo dalla guerra e dalla povertà ci si sia concentrati sul Rolex di Gad Lerner, è il segno feroce di come sia ridotta la nostra umanità.

Qui non c’è l’occhio che guarda il dito anziché la luna: qui ci sono denti che lo sbranano, quel dito. Un dito che però, forse, più che indicare la luna sta mandando a fanculo qualcun altro.

No, io non credo proprio che il problema sia Matteo Salvini, né tanto meno la Lega. La barbarie verso la quale stiamo precipitando non ha colore politico: gli insulti, l’aggressività, l’ignoranza, la violenza verbale e la divulgazione di bufale appartengono a tutti: alla sinistra come alla destra, al Pd come ai Cinquestelle, ai cattolici quanto agli anticlericali.

Ci sono leghisti pacati e dialoganti e ci sono cristiani che passano la giornata a lanciare invettive contro tutto e contro tutti.

Allora se vogliamo davvero fermare l’emorragia di umanità, l’ultima cosa che dobbiamo fare è scatenare una guerra contro un Ministro.

Il problema è che l’idea stessa di ragionare o di dialogare sembrano diventate blasfeme. Si cerca la contrapposizione a tutti i costi, si cerca ciò che divide e mai ciò che unisce. In politica come in tutti gli altri campi ormai esistono solo tifoserie: sostegno acritico alla propria “parte” e attacco sempre più violento al presunto nemico.

Abbiamo aggiunto il suffisso “ismo” alle parole, per trasformare concetti positivi in parolacce: la bontà è diventata buonismo, la revisione revisionismo, l’accoglienza accoglismo.

Ecco, qui sta la chiave di questi tempi tragici: nell’assassinio dell’accoglienza.

La questione sbarchi e migranti, non è un affare politico: è solo la punta di un iceberg.

Se le foto dei bambini morti non ci commuovono più ma ci danno solo fastidio, se ci siamo inventati di sana pianta un’emergenza che non esiste, abbiamo trasformato una delle tante problematiche da gestire in un allarme sociale, non è per colpa della Lega. E’ successo qualcosa, negli ultimi quindici anni, e Salvini in Italia – come Trump in America – è solo l’espressione politica di una barbarie comune.

Beppe Grillo diciotto anni fa partecipava al Giubileo degli Oppressi di Verona, denunciava il debito dei paesi del Terzo Mondo e i crimini della Nestlé in Africa. Oggi guida un partito che rifiuta lo Ius Soli e sostiene la chiusura dei porti.

17 anni fa eravamo a Genova a manifestare non per difendere i nostri interessi, ma quelli delle popolazioni più povere e affamate dalla nostra ricchezza. Oggi un movimento come quello noglobal non è più nemmeno immaginabile: quelle popolazioni non solo non le vogliamo più difendere né aiutare, ma le vogliamo cacciare via quando cercano di raggiungere le nostre coste.

E voi pensate che il problema sia Salvini?

Non è Salvini che ha ucciso l’accoglienza. Non è lui che hai inventato le fake news, non è la Lega che ha promosso l’egoismo sociale: è tutto un sistema che ci spinge sempre di più verso un individualismo esasperato, e la questione sbarchi è solo l’espressione politica di questo individualismo.

Non è agli immigrati, che neghiamo accoglienza: ci rifiutiamo di accogliere tutto ciò che è altro da noi stessi, in tutte le sue espressioni. Viviamo ripiegati su noi stessi (anche fisicamente, grazie al telefono) senza più guardare in faccia gli altri, se non per insultarli, quando si mettono in mezzo.

Ne parlavamo qualche mese fa con Antonio Fresa che ha dedicato un libro proprio ad una serie di delitti scaturiti nel banale della quotidianità.

Ci si ammazza per una fila alle poste: io ho rischiato ben due risse per aggressioni subite da automobilisti per i motivi più futili. Già: la macchina è un segno ben più forte degli sbarchi, di come siamo ridotti.

Quante volte strombazzate all’automobile davanti alla vostra magari solo perché non scatta subito al verde? O al ciclista che si è messo in mezzo alla strada, o al pedone che attraversa troppo lentamente?

Sembra un’idiozia ma non lo è: il clacson dovrebbe servire per segnalare un immediato pericolo, ma il più delle volte è utilizzato per mandare a fanculo. E ormai non ci accontentiamo più di strombazzare: sempre più spesso si aggiungono invettive e insulti di ogni genere.

Tutto questo perché? Perché qualcuno si è permesso di mettersi sulla nostra strada e farci ritardare di dieci secondi.

Per non parlare della Rete, dei Leoni da tastiera che pontificano su facebook distribuendo del “coglione”, “somaro”, “ignorante”, “fascista” e così via a chiunque la pensi diversamente.

Pensate che le fake news non c’entrino niente, con tutto questo? C’entrano eccome: ci stanno dentro fino al collo.

La diffusione delle fake news si basa sulla conferma di un pregiudizio: quando divulghiamo una notizia falsa non lo facciamo per informare gli altri, ma per fare propaganda: non a caso – come insegna Ermes Maiolica – le fake news che hanno più successo sono quelle che affrontano tematiche che dividono le persone. Se ci interessasse davvero la verità non ci cascheremmo mai: ma quello che ci interessa, ancora una volta, è fare il tifo, sostenere in modo acritico una fazione. Tanto è vero che – quando viene smentito – il divulgatore della bufala si giustifica sempre dicendo che “anche se non è vera è verosimile”.

Non ci si scusa mai: né per un insulto, né per una menzogna, né per un errore. Chiedere perdono è visto come un’inaccettabile debolezza. Perché chiedere perdono, cambiare idea, rivedere la posizione, significa accogliere l’altro da sé. Ed è ciò che oggi ci spaventa di più.

Se non siamo più interessati nemmeno ad accogliere la verità, figuriamoci se possiamo esserlo ad accogliere disperati che fuggono da un paese lontano. Se non siamo disposti nemmeno a condividere il mondo con chi ha un’idea diversa, figuriamoci se possiamo farlo con chi ha culture, religioni, lingue completamente estranee al nostro mondo.

Non è una questione politica, perché gli stessi che predicano l’accoglienza degli immigrati poi sono gli stessi che si battono – in nome dei diritti civili – per la fecondazione assistita, l’aborto, l’utero in affitto.
Viceversa, ci sono intere schiere di cattolici che accusano il Papa di occuparsi troppo di immigrati e poco di aborto. Insomma i bambini nell’utero della madre vanno tutelati, mentre quelli africani li possiamo lasciar morire tranquillamente in mare.

Diceva Corrado Guzzanti: “A certi cattolici la tutela della vita umana interessa dal concepimento alla nascita e dal coma alla morte: di tutto ciò che c’è in mezzo non gliene può fregare di meno”.

Eppure sono due facce della stessa medaglia: quella dell’individualismo esasperato.

Un figlio non è più un dono ma un diritto dell’individuo. Non va accolto, ma rivendicato.
Va quindi tutelato il diritto a rifiutare un figlio indesiderato, e anche quello a fare un figlio a tutti i costi, affittandosi un utero o comprandosi uno spermatozoo.

Di adozione, invece, significativamente non parla nessuno, né a destra né a sinistra. Proprio perché è l’espressione massima dell’accoglienza. E noi viviamo in una società dove bisogna comprare, non accogliere.

“Il Pil, la ricchezza misurata in consumo” cantava Lorenzo Jovanotti Cherubini nel 2002.

Si parla solo di quello: il Pil è l’unico indice di benessere di cui sentiamo parlare. Per uscire dalla crisi, si dice, devono ripartire i consumi. Capito? Siamo poveri, non abbiamo soldi, ma non dobbiamo risparmiare: dobbiamo spendere!

“Eppure il Pil non è un indice di benessere ma di sfiga” diceva Grillo.

Se io mi compro la macchina nuova senza avere i soldi e mi indebito, poi faccio un incidente e la devo riparare, indebitandomi ulteriormente, il Pil cresce.
Se invece vado a piedi, prendo un po’ di aria fresca, sono più felice e più ricco ma faccio crollare il Pil.
Se mangio troppo e ingrasso, vado dal dietologo e dal medico per curarmi e in palestra per dimagrire, il Pil cresce. Se mangio meno e faccio una vita sana, il Pil crolla.

Se sono infelice, compro gli ansiolitici e vado dall’analista il Pil cresce. Se sono felice, esco con gli amici e al massimo vado a confessarmi da un prete, il Pil crolla.

Se mi sposo faccio crescere il Pil, ma se poi non divorzio lo faccio calare.

Se mi spendo la tredicesima per andare alle Maldive e magari mi rompo anche i coglioni tutto il tempo, faccio schizzare il Pil. Se me ne vado in giro per la Sabina o la Valnerina alla scoperta delle mie radici, io risparmio e magari mi diverto di più ma il Pil crolla.

Se in vacanza spendo una marea di soldi per andare in un albergo di lusso l’economia ne giova, se pratico lo scambio case ammazzo il Prodotto Interno Lordo anche se oltre a non spendere nulla ho guadagnato degli amici.

Per questo la società – tutte le componenti della società – ci spingono sempre di più all’individualismo.

Alex Pentothal raccontava qualche anno fa Popoli e Religioni – Terni Film Festival che quando lui ha iniziato a fare pubblicità c’era il “formato famiglia” mentre oggi sono tutti prodotti monodose. D’altra parte in “Casomai” spiegava come il divorzio sia funzionale alla società: se sei da solo e se sei infelice spendi di più: per questo accoglienza e condivisione sono concetti sempre più banditi.

In questo contesto capite come l’allarme sicurezza sia una componente fondamentale. Se sono solo ho più paura: compro i calmanti, compro gli allarmi per casa, nuove serrature e magari delle armi con cui difendermi; compro i giornali che parlano di omicidi e terrorismo, furti e rapine, e – ovviamente – voto i partiti che mi mettono più ansia promettendo di difendermi.

Chi non ha paura è pericolosissimo per la società dei consumi.
Chi accoglie – gli altri e le loro idee – è pericolosissimo.
Chi condivide, chi dialoga, chi ragiona, è il pericolo più grande

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