Moonwalker 30 anni dopo

di Arnaldo Casali

Nel gennaio del 1989 fondai un giornalino umoristico autoprodotto: si chiamava Il Giornale sui fascisti e i comunisti, successivamente ribattezzato GFC. In quel giornalino avevo inserito una rubrica di recensioni cinematografiche.

Ogni articolo lo iniziavo più o meno così: “Avrei preferito parlare di Moonwalker, invece vi parlerò di…”. Ho recensito molti film ignobili, in quella rubrica, ma mai Moonwalker, quindi era tempo che lo facessi.

Rivisto a 30 anni di distanza Moonwalker, il film di Michael Jackson, fa un effetto curioso.
Quando l’ho visto la prima volta, al cinema, avevo 14 anni, il film più intellettuale che avevo visto era E.T. ed ero un fanatico estremista di Michael Jackson. Eppure il mio giudizio fu che si trattava di una cagata pazzesca. “Quando fa i videoclip – dissi – gli vengono fuori dei veri e propri film di dieci minuti. Adesso che ha fatto un film, gli è venuto fuori un videoclip di un’ora e mezza”.

Curioso che oggi che ho 44 anni, ho affinato i miei gusti musicali e cinefili, dirigo un festival cinematografico e Michael Jackson non lo ascolto da almeno 15 anni, beh, devo rivalutare questa opera stramba.

Sotto il profilo strettamente cinematografico, sì, resta una cretinata. Ma questo colossale videoclip pieno di ingenuità ed effetti speciali è più interessante di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Se non altro, perché non è il solito documentario sulla rockstar di turno o il solito filmato di un concerto e assomiglia piuttosto ai vecchi film dei Beatles.


Più che un prodotto commerciale buono giusto per dare immagini a un po’ di canzoni, “Moonwalker” è una vera e propria autobiografia – sincera e metaforica – di uno dei personaggi più importanti e discussi della storia dello spettacolo.

Mi rendo conto solo ora del potere simbolico di quelli che trent’anni fa mi erano sembrati solo dei giocattoloni infantili. Perché infantile, Moonwalker lo è, ma nel senso più nobile del termine: è un film scritto, prodotto e interpretato da un bambino di trent’anni. Davvero un film come lo avrebbe girato da Peter Pan. La vicenda così improbabile, l’ingenuità dei dialoghi riflettono il candore di una mente pura, e non furba.

Michael Jackson che si trasforma in gangster, poi in macchina da corsa, in coniglio, in robot, in astronave, da una parte è la materializzazione dei sogni di ogni bambino (che un bambino trentenne e miliardario si è potuto permettere di realizzare), dall’altro la manifestazione del disagio di un uomo non riconciliato, costretto in continuazione a cambiare pelle, a cambiare forma perché non riesce ad accettarsi e ad integrarsi con il mondo. E allora diventa gigantesco e potente come un Transformer, magico come un ufo, figo come una rockstar, ma non riesce mai ad essere uomo tra gli uomini, e nemmeno uomo tra i bambini.

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