Marcia delle tolleranza a Cracovia, una marcia sotto assedio

 

Di Michele Annesanti

È orami un mese che sono tornato da Cracovia, dove, per mia grande fortuna ho potuto fare un’esperienza che consiglio a molti studenti miei colleghi, l’Erasmus. Inizialmente anche a me è stato consigliato e con mille difficoltà  mentali sono partito. Alla fine la cosa ha superato ogni mia aspettativa. Quando parlavo con qualcuno che mi diceva di partire, rispondevo come a me viene risposto adesso; si ora vediamo, ma non parlo bene l’inglese, dove vado? si figurati se vado a perdere tempo, e cosi via. Certamente la volontà di lasciare mamma e papà a venti anni, nel nostro paese, non è che va di moda. Non ce l’abbiamo né nel sangue né  nell’italica tradizione e quindi l’esperienza in questione può diventare un trampolino di lancio verso un cambiamento culturale oltre che una crescita personale. Tuttavia la mia intenzione adesso non è quella di parlare delle potenzialità che offre l’Erasmus oppure di ogni esperienza che possa farci uscire di casa, se necessario anche definitivamente. È  quella di  raccontarvi una particolare momento che ho vissuto a Cracovia, una città meravigliosa che non ha nulla da invidiare alle nostre migliori città d’arte.

Alla marcia per la tolleranza abbiamo partecipato in molti. La tolleranza la chiedevano in coro – in quel 19 marzo scorso  un giorno caldo, quasi estivo, prima ancora che primaverile-  e  la continuano a chiedere gli omosessuali e le lesbiche polacche ad una società, quella polacca, che sta vivendo, diversamente che nel nostro paese, un momento di crescita economica e di benessere da troppo tempo atteso.  Una società che vive tutte le contraddizioni di un paese in pieno sviluppo, schiacciata tra tradizione, apertura delle frontiere e consumismo.

La situazione si presentava già molto più calda della giornata stessa, il mio coinquilino polacco mi aveva avvertito prima di uscire dal dormitorio; It is better if you pay attention, it is possible that will be dangerous. Ma sinceramente non avevo dato troppo peso a quelle parole, in un inglese che qualche volta faticavo a capire. Cosi con una mia amica decidemmo di andare, armati di macchinette fotografiche ed un pacchetto di sigarette.

L’appuntamento era in pieno giorno in piazza  Szczepanski, al centro Città, che noi conoscevamo bene visto che era uno dei posti più frequentati dagli erasmus. Arrivati sul posto, mi ritornarono in mente le parole del mio coinquilino, la situazione infatti si presentava abbastanza tesa. La piazza era completamente piena di persone, ma ognuno era schierato in tre diversi fronti.  Al centro c’erano i manifestanti  quelli “in regola” con tamburi, chitarre,  trombe e fischietti. Erano vestiti con i colori della bandiera arcobaleno e ovviamente bandiere arcobaleno, striscioni in polacco e in inglese dove risuonavano parole come solidarietà e tolleranza. Poi c’era la polizia, schierata in tenuta antisommossa, uniforme nera , elmetto bianco e armati di manganelli, pistole, fucili con lacrimogeni e scudi.  Lungo le strade, che circondano la piazza , c’erano parcheggiati furgoni blu scuro, tetri come la nebbia d’inverno. Questi “ men in black”, avevano diviso in due la piazza trasversalmente, dando a noi le spalle e separando  cosi il nucleo della manifestazione dal terzo gruppo di persone, molto più cospicuo del primo, anche questi vestiti di nero.  Ognuno di loro aveva la testa rasata, intonavano canti incomprensibili e portavano con se, la bandiera bianca e rossa, i colori della Polonia, grandi striscioni  e cartelli bizzarri in cui era stato sbarrato un disegno dove un omino stilizzato si accoppiava con un altro omino stilizzato.

Mi sentivo in trappola, come se stessi facendo qualcosa di sbagliato. Come se tutto in quel posto era sbagliato. La piazza in un normale giorno cracoviano è un posto piacevolissimo ma in quel momento era come fosse scossa da un terremoto. I canti dei manifestanti per la tolleranza si mescolavano con le urla e i cori delle teste rasate. Percepivo il loro odio, ma anche l’ostinazione dei “regolari”  di rimanere lì dov’erano, come se volessero vincere quella sfida sociale in quel preciso istante. L’adrenalina mi era salita già da un bel  pezzo, passando da uno stato di euforia ad uno di visibilissima preoccupazione.  Diversamente la mia amica viveva il tutto con molta disinvoltura. Mi ronzavano in testa le parole del mio coinquilino, costanti come il rullare dei tamburi, e soprattutto l’idea di trovarmi in mezzo ad un campo di battaglia non è che mi entusiasmasse un granché.

Ad un certo punto si sentirono delle esplosioni, forti e fastidiose, facendo cadere tutta la piazza in un silenzio che durò una frazione di secondo. Dal cielo cadevano, come gocce, delle uova tutte dirette verso di noi. Erano i gruppi di estrema destra che avevano deciso di passare ai fatti e farci paura. Con me ci erano riusciti. In quell’istante i canti dei manifestanti erano più decisi, la loro voce si era fatta più grande. Vidi la polizia rincorrere un gruppo di estremisti che, staccatosi dalla massa principale, cercava di raggirarci.  Poco dopo la marcia ebbe inizio. Con forte indecisione mi chiedevo se unirmi  a loro, ma ora mai la frittata era fatta. I manifestanti iniziarono la loro marcia nel percorso stabilito con le autorità, direzione, il centro cittadino e poi da lì verso  una piazza adiacente il quartiere ebraico.

La polizia aveva intanto sgombrato la via e noi in coda, festosi come se nulla fosse, camminammo per tutta la città tra lo stupore dei turisti. In testa, ai nostri fianchi e in coda sempre la polizia a vigilare su di noi. I ragazzi dell’estrema destra si erano dissolti come ghiaccio al sole. Ogni tanto vedevo qualche testa rasata che cercava di entrare nella lunga coda ma senza successo, la polizia era come un muro. I manifestanti erano aumentati,  e vedevo intorno a me non solo coppie gay ma anche famiglie etero con bambini al seguito. Protetti dalla polizia, blindati come il un cavò di una banca, ci godemmo quella festa.

Tornai a casa con un sorriso. Tutto era andato nel migliore dei modi, perché avevo vissuto una realtà polacca a me sconosciuta. E per lo stesso motivo, tornai a casa con un pizzico di tristezza.

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