Maradona ucciso da una parata

di Arnaldo Casali

Secondo l’Ansa Maradona è morto per una “parata cardiorespiratoria”.

Un lapsus comprensibile, visto che “parada” in spagnolo significa arresto, al momento, l’unica fonte dei giornali italiani è il quotidiano argentino El Clarin, e considerata anche  l’Ansia con cui deve essere stato confezionato l’articolo, dopo che la principale agenzia di stampa italiana aveva bucato la notizia del giorno, arrivando letteralmente ultima.

Al di là della grandezza del calciatore e della tragedia dell’uomo, infatti, interessante e significativo è il modo in cui la morte di Diego Armando Maradona è stata gestita sotto il profilo mediatico. Una notizia che segna – di fatto – il definitivo passaggio le consegne delle notizie, dall’informazione istituzionale ai social network.

Ad annunciare la morte del più grande calciatore del mondo, infatti, non è stata nessuna delle testate principali italiane ma un sito di tifosi del Napoli. Seguito, per lunghissimi minuti, da giornali online indipendenti e dopo oltre un quarto d’ora (un tempo lunghissimo nell’era internet) dalle grandi testate.

Sono le 17.18 del 25 novembre quando il sito TuttoNapoli.net annuncia – richiamandosi genericamente alla stampa argentina – la morte di Maradona.

Io lo vengo a sapere casualmente, perché sono in ufficio con una collega napoletana che stava parlando al telefono con una conterranea: quando lo scrivo su facebook (17.20) ancora nessun giornale italiano riporta la notizia. Subito dopo escono Open (17.22), Il Fatto (17.23), TPI (17.25), Repubblica (17.30), Il Messaggero (17.31) e infine – alle 17.33 – l’Ansa, peraltro senza alcun testo: La principale agenzia di stampa italiana si limita infatti a scrivere “è morto Maradona”. Passano ben quindici minuti prima che l’Ansa esca con il brevissimo articolo che contiene anche la gaffe sopra riportata e subito dopo corretta, e solo adesso, mentre sto scrivendo queste righe (ore 18.33) è comparso un vero e proprio servizio.

Possiamo dire quindi che la morte di Maradona metta in sigillo su un radicale rovesciamento dei ruoli: un tempo i cittadini leggevano le notizie sui giornali e i giornali le prendevano dalle agenzie. Oggi la prima agenzia di stampa italiana – quella che dovrebbe dare le notizie a tutti i giornali – è l’ultima ad avere la notizia del giorno.

Si tratta solo dell’atto finale di un percorso durato vent’anni: nell’era dei blog e de social network i mezzi di comunicazione ufficiali hanno ormai perso definitivamente il compito di dare le notizie. Era ora, direi. Per decenni a noi giornalisti hanno inculcato l’idea che dovevamo “arrivare prima”, dare il buco agli altri, inseguire lo scoop.

Per oltre un secolo il mestiere del giornalista si è basato sulla velocità più che sulla qualità. Ecco, sotto questo profilo, io credo che la sconfitta dei giornalisti da parte dei social media sia provvidenziale.

Sono anni che sentiamo dire che i giornali non servano più perché le notizie arrivano su internet; ma la verità è che questo è un modo di pensare il giornalismo legato al Novecento e che è ora che venga superato.

Non un modo vecchio – badate bene – ma novecentesco. Perché il giornalismo esiste da sempre (da molto prima che esistessero i giornali) ed è solo nel Novecento che il giornalista si è assunto il compito di dare le notizie e ha finito per identificarsi così tanto in questo ruolo, da finire in crisi di identità quando le notizie hanno iniziato a darle altri.

La verità è che il giornalista non deve dare le notizie, deve interpretarle. Deve dare una lettura critica di ciò che avviene. Non deve limitarsi a informare ma guidare il lettore nell’informazione. E tanto più in un’epoca in cui siamo bombardati da notizie, questo ruolo diventa importante.

Io non so più da quanto tempo non leggo una notizia su un giornale: oggi le notizie si danno su twitter e si fanno circolare su facebook. I giornali li leggo per capire la realtà, per acquistare una coscienza critica, per mettere insieme il puzzle. Oggi un grande giornalista non è quello che dà la notizia prima degli altri, è quello che la capisce meglio.

Quindi è ora che i giornalisti si mettano in testa che il pericolo non è quello di “prendere il buco”: il pericolo è quello di non avere niente da dire.

 

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