L’EREDITA’ DI POMPEO DE ANGELIS


di Arnaldo Casali

Pompeo De Angelis si è spento all’alba di sabato 16 marzo 2019, dopo una lunga malattia che negli ultimi tempi gli aveva tolto la vista, una gamba e fatto di una camera di ospedale il suo “ufficio”, ma non era riuscita a fiaccare minimamente la sua voglia di studiare, di scrivere, di progettare.

Per me era un punto di riferimento imprescindibile e un caro amico, forse il nonno che non ho mai avuto. L’ho frequentato per tanti anni per scoprire solo quando è morto che in realtà non sapevi niente di lui.

Per me Pompeo era lo storico di Terni, l’uomo che ha restituito alla mia città la sua identità e la sua ricchezza culturale. Per il resto sapevo solo che aveva lavorato in Rai e militato nella Democrazia Cristiana. Tutto qui.

Quando l’ho conosciuto – quattordici anni fa – aveva più di settant’anni, eppure ha fatto così tante cose e così tanto importanti, in questi tre lustri, che in realtà di tutto quello che aveva fatto prima ho saputo poco. Perché lui non ne parlava mai: nemmeno un accenno alla sua vita avventurosa ancora più interessante di quelle che ha scelto di raccontare.


Qualche settimana fa, in ospedale, mi ha raccontato un po’ di quando era autore e regista Rai e dell’amicizia con Francesco Guccini e Claudio Baglioni, sostenendo addirittura di avergli suggerito alcuni versi di Questo piccolo grande amore. Io, lo confesso, ho pensato che fosse una sparata, e solo oggi ho scoperto che non solo è vero, ma che addirittura è stato lui a disegnare la copertina dell’album. E molto di più.

A un certo punto, come se niente fosse, mi ha detto di essere stato guerrigliero in America Latina e di aver conosciuto Che Guevara, rifiutandosi però, di dirmi di più. Non voleva parlare del passato: fino all’ultimo è stato interessato solo al presente, e al futuro. Mi ha parlato a lungo del nuovo libro, che sta per uscire, dedicato al canale di Suez e di quello appena completato, sulla “Napoleona”.

“E poi ce ne è un altro, a cui sto lavorando ma che non farò in tempo a finire: l’ho chiamato Algeriade”. Una storia ironica sull’occupazione dell’Algeria attraverso il punto di vista di un personaggio che aveva rintracciato attraverso lunghe ricerche in mezza Europa. “Sarebbe bello se lo finissi tu – mi ha detto – quando torno a casa ti mando i file per email”.
A casa, però, non ci è più tornato.

Io lo conoscevo solo di fama (credo che il primo a parlarmi di lui sia stato mio fratello, riguardo ad uno spettacolo di cui avrebbe dovuto curare la regia) quando l’ho incontrato per la prima volta nel 2005, grazie al festival Popoli e Religioni, di cui è stato uno dei fondatori.

Pochi mesi dopo fu il promotore di un grande convegno su Acciaio, il film ambientato nelle acciaierie di Terni scritto da Pirandello e mi volle tra i relatori: è stata la prima volta che ho parlato in pubblico (e in quell’occasione fui intervistato da Radio Uno insieme nientemeno che a Carlo Lizzani!). Da allora per me ha rappresentato un punto di riferimento importantissimo sia sotto il profilo culturale che sotto quello umano.

Grazie a Stefania Parisi, come responsabile del progetto storico dell’Istess in questi anni ha fatto cose straordinarie che hanno restituito alla città un’identità per troppo tempo dimenticata, sepolta, censurata: a partire dalla monumentale Storia di Terni pubblicata nell’arco di dieci anni e con cui ha ricostruito le vicende della città dalla preistoria agli anni ’50; sette volumi a cui ha affiancato una serie di monografie che ci hanno permesso di riscoprire i ternani più illustri: da Virgilio Alterocca a Orazio Nucula, da Barnaba Manassei a Francesco Angeloni, fino a san Valentino.

E’ stato grazie a lui se mi sono avvicinato sotto il profilo storico a quello che, fino a dieci anni fa, era solo il patrono di Terni e degli innamorati; e non a caso nel mio romanzo Il segreto del Santo innamorato ho dedicato a Pompeo il personaggio del padre di san Valentino.

In realtà non c’è praticamente argomento di cui non si sia occupato, Pompeo, in questi anni: dalla storia delle acciaierie a quella della Resistenza; e non ha mai smesso di lavorare: anche l’ultima volta che l’ho visto – pochi giorni fa – mi parlava di cose da fare insieme, anche se era perfettamente consapevole che la fine era vicina.

“E’ questione di mesi” mi aveva detto un mese e mezzo fa.

E allora avevamo parlato ancora una volta di san Valentino (era entusiasta del libro voluto dal vicesindaco Andrea Giuli e mi ha indicato un suo saggio che ancora non conoscevo e che ho potuto utilizzare per completarlo) e del festival Popoli e Religioni, di cui era fierissimo. Abbiamo parlato anche di tanti amici comuni, come Stefania Parisi (che gli è stata vicino più di ogni altro in questi mesi) e Marco Venanzi, che – mi ha detto – “è una delle persone che stimo di più a Terni”.

Mi ha detto – tra le tante cose – di voler costituire una Fondazione, con cui promuovere iniziative culturali e a cui affidare la sua sterminata biblioteca.

In realtà solo al funerale ho scoperto che questo uomo è stato seminarista e amante di Sandra Milo, amico di Brigitte Bardot, Francois Truffaut, Francesco Guccini, Mogol e dello stesso Mario Marenco (suo coetaneo e morto il giorno dopo di lui), che ha fondato la RCA e la Eri, è stato consulente di Gillo Pontecorvo e ispirato uno dei personaggi di “La battaglia di Algeri”, ha contribuito alla scrittura di canzoni come “I giardini di marzo” e “Questo piccolo grande amore”, ha scoperto e lanciato Claudio Baglioni, ha lavorato per l’intelligence, ha partecipato alla guerra di Algeria, alle rivoluzioni in America Latina e ed è stato incarcerato e torturato in Portogallo.

Ora l’auspicio è che non vada perduta l’immensa eredità di questo gigante che ha scritto la storia. In ogni senso.

 

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