Lazzaro felice. Noi anche.

di Arnaldo Casali

Capita di vedere bei film. Ma di restare letteralmente i n c a n t a t i davanti allo schermo, è cosa rara.
Il terzo film di Alice Rohrwacher è qualcosa di più di un capolavoro: L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi sposa Novecento di Bertolucci e insieme incontrano Non ci resta che piangere di Roberto Benigni, La macchina del tempo di H.G. Wells e Il favoloso mondo di Amélie di Jeunet. E non so quanto altro.

Lazzaro felice è un film neorealista, è una fiaba, è poesia in cinema, è una parabola cristiana, una metafora sociale, un’opera profondamente francescana sotto tutti i profili; è un viaggio nel tempo che racconta la storia della povertà dagli inizi del secolo a oggi, dalla povertà contadina dei mezzadri che appartenevano al Padrone a quella metropolitana di chi vive ai margini del consumismo.

E’ anche – e non è poco – uno dei pochi film parlato nel dialetto umbro, in un cinema egemonizzato dal napoletano, il romano, il bolognese, magari – ultimamente – quelli dei profondo nord.

Alice Rohrwacher è un Artista con la maiuscola, capace di parlare della Vita, di raccontare storie eterne con un’originalità inedita, di mescolare divi del nostro cinema e personaggi televisivi (Natalino Balasso, la rediviva e qui in una delle sue interpretazioni migliori Nicoletta Braschi che da “principessa” diventa marchesa, Tommaso Ragno)  con attori presi dalla strada, come l’incredibile protagonista Adriano Tardiolo.

In una delle scene più poetiche e surreali un gruppo di persone entra in una chiesa attratto dalla musica dell’organo e viene cacciato da una suora perché “è una celebrazione privata”. Allora loro se ne vanno; ma se ne va anche la musica: la melodia che usciva dalle canne dell’organo abbandona la chiesa e segue il gruppo.

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