Esegesi del giornalismo retorico

di Arnaldo Casali

“Si chiamava Adriano Urso. Aveva un talento, suonare il piano, e un sogno: vivere del suo talento. La pandemia è passata sopra a quel mondo e ha calpestato il sipario. Allora si è visto di che pasta sono fatti, certi poeti. Privato brutalmente del suo piano, Adriano Urso avrebbe potuto buttarsi via. Invece ha deciso di suonare la vita nell’unico modo ancora possibile: mettendosi a consegnare cibo a domicilio. Domenica scorsa, una sera freddissima anche a Roma, il pianista Adriano Urso guidava impavido la sua automobilina d’epoca verso la prossima consegna. La macchina si è fermata, forse per il gelo. Adriano è sceso a spingere, aiutato da due passanti, ma quando si è riacceso il motore, si è spento lui. Il suo cuore è uscito di scena, lasciandoci qui ad applaudirlo, in bilico tra la rabbia e la tenerezza”.

Così scrive oggi Massimo Gramellini. Mentre un autorevole giornalista dell’Espresso, raccontando la stessa storia, commenta su facebook: “È morto di infarto per lo sforzo, per il freddo e perché a forza di dispiaceri il cuore si sbrindella”.

Ecco, io mi chiedo cosa spinge un cronista a dover mettere il suo narcisismo anche di fronte alla morte di un uomo?

Provate a rileggere l’articolo con un occhio minimamente critico: sono pochi i passaggi in cui l’autore offre al lettore delle informazioni. La gran parte delle parole servono ad esagerare fino al ridicolo la narrazione per rendere epico quello che è un episodio di cronaca nera abbastanza banale (un malore dovuto ad uno sforzo fisico), non cogliendo l’occasione per approfondire una drammatica realtà – e cioè quella del mondo dello spettacolo paralizzato dall’emergenza sanitaria –  ma per cavalcare la disgrazia di una persona normalissima trasformandola in un romanzo di appendice. Tra l’altro riportandola in modo sbagliato e pieno di inesattezze, come conferma un’intervista al fratello di Urso. 

Privato brutalmente del suo piano” (la parola serve solo a dare enfasi, Adriano non ha compiuto un atto eroico, né ha subito alcuna brutalità: semplicemente, come molti altri, ha deciso di non stare con le mani in mano e di darsi da fare), “guidava impavido” (come trasformare una normalissima serata d’inverno in uno scenario catastrofico).

Altro che applausi al “cuore uscito di scena” del pianista: è Gramellini a cercare applausi usando la storia di Adriano Urso.

“Si ricordi: ogni frase ha il soggetto, il predicato verbale e il complemento oggetto. Punto. Se vuole usare un aggettivo venga prima da me e mi chieda il permesso” diceva il direttore del Neue Zürcher Zeitung a ogni giovane praticante appena assunto. “La letteratura è la peste del giornalismo!” commentava Mario Borsa, direttore del Corriere della Sera.

Ma il problema non è Gramellini, sia chiaro. In Italia abbiamo un’intera scuola di giornalismo retorico, il cui maestro indiscusso è Roberto Saviano: scrittori che vogliono essere poetici a tutti i costi, in cui anche una pisciata diventa una tempesta di gocce di dolore impastate da una dolente carta velina.

“Se a Leopardi son bastati 8 aggettivi qualificativi su 102 vocaboli totali per scrivere quel gioiello che è L’infinito – scrive Cesare Sartori in Processo alla retorica – perché io semplice cronista dovrei pretendere una dotazione lessicale maggiore?”.

“Quell’acuto sociologo che è Altan – prosegue Sartori – la retorica applicata al giornalismo l’aveva già bollata più di 30 anni fa con una vignetta pubblicata da Panorama: Il caporedattore «Non è successo un tubo», e il direttore «Magnifico! Mandiamo tre inviati e titoliamo ‘Tragico vuoto’».

Pochi giorni fa ho intervistato lo scrittore del momento: Daniele Mencarelli, poeta affermato da anni, che con il suo secondo romanzo ha vinto il premio Strega giovani.

Mi ha colpito molto come proprio un poeta professionista abbia una prosa estremamente asciutta, sobria, priva di qualsiasi retorica o artificio fighetto. E gliel’ho fatto notare. Sapete cosa mi ha risposto?

“Il poetico ha ucciso la poesia”.

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