Io accuso

di Arnaldo Casali

Stasera non credevo ai miei occhi: in sala, con me, c’erano oltre dieci persone. Cifre, con i tempi che corrono, da blockbuster americano o da commediona italiana, certo non da Roman Polanski.

E invece sì: J’accuse (in italiano “L’ufficiale e la spia”) dell’ottantaseienne regista polacco non è solo un capolavoro, ma è anche un grande successo.

Meglio il film di Polanski su Dreyfus (che in realtà si vede pochissimo) o il film di Tarantino su Polanski (che in realtà si vede pochissimo)? E’ una bella lotta, bisogna ammetterlo, e il paragone – a parte la chicca del doppio Polanski – ovviamente non ha alcun senso. Anche triplo, volendo, perché Polanski, in realtà, compare anche nel suo film, anche se solo per pochi secondi, con una due grandi baffoni e una comparsata alla Hitchcock (appena poco di più compare invece Luca Barbareschi – che lo ha prodotto – nei panni del cornuto).

Il film è – sotto tutti i punti di vista – semplicemente impeccabile, e c’è poco da dire sulla regia di uno dei più grandi maestri del cinema, se non che è in gran forma e che questo è uno dei suoi lavori migliori. Solo una cosa vorrei dire: per la prima volta in vita mia, sono stato colpito dal sonoro del film. Il rumore dei passi, i passi sul parquet o sul pavimento di marmo, è una delle cose che più mi ha colpito.

Quanto alla storia, è impressionante per la sua attualità: sono andato a vedere questo film poche ore dopo aver letto – e commentato – la notizia della mega bufala sulle ragazze cilene simbolo delle proteste in Cile.

Per giorni si è parlato di El Mimo, che sarebbe stata arrestata, torturata e uccisa dalla polizia, salvo poi scoprire che si è suicidata a casa sua, lasciando anche una lettera in cui spiega le motivazioni. Proprio mentre veniva smentita questa notizia veniva divulgata – negli stessi ambienti – quella della fotografa, anch’essa uccisa dalle forze dell’ordine per il suo impegno politico, salvo poi scoprire che anche in questo caso la politica non c’entra nulla e la ragazza è stata probabilmente vittima di femminicidio. Due bufale conclamate e che pure continuano ad essere difese da chi ha bisogno di eroi e di martiri per la causa dei manifestanti.

Che c’entra tutto questo, direte voi, con un clamoroso caso di antisemitismo come quello dell’ufficiale condannato per spionaggio senza uno straccio di prova, solo perché ebreo?

C’entra perché Dreyfus è stato vittima di una colossale bufala, una bufala difesa strenuamente dai suoi aguzzini in nome di un pregiudizio.

Picquart – il vero protagonista del film dell’Affaire – è anch’esso antisemita, ma è animato dall’amore per la verità, esattamente come il giornalista e scrittore Emile Zola, autore del celebre articolo che dà il titolo al film e che impedì che l’indagine fosse soffocata.

Quindi – a mio avviso – non è di antisemitismo, che parla il film (e mi auguro di cuore che non ce ne sia davvero bisogno, nel 2019) ma della ostinata ricerca della verità e della giustizia.

C’è davvero differenza tra il trasformare un innocente in un traditore o in un eroe, quando a muovere la menzogna è un’ideologia o un pregiudizio?

Io non credo: Daniela Carrasco o Albertina Martinez Burgos sono solo le ultime vittime di “bufale edificanti”. Ma forse ricorderete ancora il caso dell’atleta nigeriana vittima di un’aggressione razzista che poi si scoprì che di razzista non aveva nulla.

Sul fronte (ideologicamente) opposto ma speculare potremmo citare il caso di Stefano Cucchi e quelli di tante altre vittime di ingiustizia e pregiudizi.

E attenzione a pensare che ci sia differenza tra la “bugia buona” e la “bugia cattiva”, perché se continuiamo a pensare che la verità non sia un valore assoluto, ma che possa essere piegata a ciò che riteniamo essere giusto o sbagliato, allora di casi Dreyfus e Cucchi ne avremo ancora molti, per molto tempo.

P.S.

Piccola curiosità cinefila: tra i tanti film sul caso Dreyfus che hanno preceduto quello di Roman Polanski, tre sono stati girati quando tutti i protagonisti erano ancora in vita e il caso non ancora chiuso definitivamente (il primo nel 1899  diretto e interpretato da Georges Melies, il secondo nel 1902 e e il terzo nel 1908) mentre l’ultimo  – Prigionieri dell’onore – ha visto come protagonista Richard Dreyfuss.

 

 

 

 

 

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