INTERVISTA ALL’ABBE’ PIERRE di Dario Scorza


Lei ha vissuto radicalmente il suo cristianesimo fino alla sfida delle leggi inique degli uomini, infrangendo lo stereotipo che vuole i preti benpensanti, amanti dell’ordine e dello status quo; è giusto dire che per un cristiano la moderazione è un vizio?

«Sì, è vero. La moderazione, la prudenza non sono mai state le mie principali caratteristiche. I miei compagni ed io abbiamo sempre fatto le cose “che non si fanno” e detto delle cose “che non si dicono”, tutto tentando di non far dispiacere ed umiliare gli altri. Io non penso che la moderazione sia una virtù per un cristiano. Ho letto da qualche parte una considerazione del mio amico Luigi Bettazzi, anziano vescovo d’Ivrea, che io condivido pienamente: «Se Gesù Cristo fosse stato un moderato sarebbe morto tranquillamente e da vecchio nel suo letto… Se è morto giovane e su di una croce, è segno che non è stato troppo prudente e moderato…»
Di fronte ai terribili drammi umani che opprimono una moltitudine enorme di nostre sorelle e fratelli nel mondo, drammi che per la maggior parte dipendono dal nostro sistema di vita e di spreco, come restare “prudenti e moderati”? Come, al contrario, non reagire con forza, io direi pure in collera, per lottare insieme e favorire la liberazione di tutta questa moltitudine di figli di Dio, che muoiono oppressi da tutte le ingiustizie che degli uomini perbene procurano loro?»

Lei è entrato a far parte della Resistenza quando ha saputo che la polizia francese, agli ordini dei nazisti, aveva fatto sparire 12000 ebrei parigini; ma oggi, per gli uomini di buona volontà c’è una Resistenza alla quale urge prendere parte?

«Resistere significa dire “no” a una situazione ingiusta che noi non possiamo accettare. Dire “no” e agire di conseguenza. Come molti altri, io, al momento della guerra, nel momento in cui ho conosciuto le aberrazioni della guerra, ho sentito la necessità di dire «No, questo non va!» ed ho cercato di fare tutto ciò che mi è stato possibile per salvare le persone che avevano fiducia in me, per guadagnare la loro libertà. Ed io sono diventato oppositore. Oggi, da noi in Europa e nel mondo intero, ci sono infinite situazioni  in cui donne, uomini e bambini, innocenti!, muoiono o vivono nelle condizioni inaccettabili per dei Figli di Dio. Noi non possiamo continuare ad essere “prudenti” o “moderati”. La buona collera (perché non è vero che la collera sia sempre un vizio… c’è anche una santa collera, quella che ci fa reagire, che ci fa resistere alle differenti ingiustizie che opprimono le Persone), allora, la buona collera ci fa divenire “oppositori”. Oppositori ad ogni forma di disoccupazione, di miseria, di abbandono nelle quali i prudenti lasciano vivere e morire i propri fratelli e sorelle. Oppositori a tutte le forme di fame e sete delle quali le nostre sorelle e fratelli soffrono. Oppositori a tutte le imposizioni d’una globalizzazione e d’un liberismo senza regole. Oppositori ad ogni specie di guerre, economiche, finanziarie e armate, che dappertutto, ma soprattutto in Africa, lasciano sul loro cammino massacri e massacri dei più deboli… Chi può dirsi umano e non rientrare in tutte queste opposizioni?»

Il Cristianesimo è in declino nell’occidente opulento ed avanza tra i poveri del Terzo Mondo: allora è vero che è soprattutto la religione dei poveri, ai quali annuncia la liberazione? E’ il benessere ad uccidere la fede cristiana?

«Stiamo attenti, allorquando constatiamo che nella popolazione agiata, non mancando di grandi cose importanti, la fede diminuisce di gran numero. Concludere che la fede sarebbe – come si dice facilmente – la religione dei poveri, è a dire, in verità, poco o nulla. La fede dà ai poveri fiducia in una possibile liberazione, ma non è anche frequente vedere dei poveri liberati condurre la loro vita ad imitazione dei ricchi? Non è dalla liberazione materiale che i poveri devono trovare la loro fede. E’ la liberazione da quello che è già contenuto in loro stessi – il ricordo delle manifestazioni esteriori della fede, ma di una fede senza vita – e che ben presto rischierebbe di rendere un vecchio povero simile ad un ricco in cui la boria così facilmente farebbe dimenticare la fragilità».

Si parla molto del rapporto con i cosiddetti “lontani”. Quale potrebbe essere un rapporto utile e giusto tra i cattolici e gli atei, al di là di tutti i semplici tentativi di conversione? Qual è la giusta conversione di cui c’è bisogno oggi ?

«Alla sua domanda, con pieno diritto si potrebbe rispondere quasi un po’ violentemente: “Non è chi sta bene,  ma il malato che ha bisogno del medico”. Spesso, quando si pone la questione della relazione tra i credenti e quelli che al tempo di nostro Signore si chiamavano gli stranieri, si dà l’impressione di avere paura degli altri, degli “stranieri” e di vivere la nostra fede con un timore che induce a pensare che ogni fede sia una minaccia per la nostra. Se la fede è vissuta così, questa paura diviene, disgraziatamente, contagiosa. Il problema del rapporto tra credenti e non credenti non è tutto intero in questa parola che si sente talvolta sulle labbra dei non credenti: «Ah, io vorrei che ciò che io vedo vivere a lui, al credente, sia la verità»?
Il credente lavora nella vita di ogni giorno in unione con i non credenti che non temono lo spirito di Dio, per poter far nascere la speranza nel pensiero e nel cuore dei suoi amici non credenti».

Per quale motivo ha scelto, pur essendo prete, di fondare una comunità aconfessionale? Quali sono stati i benefici di questa aconfessionalità?

«Io ho l’abitudine di dire, perché è la verità, che io non ho scelto. Dopo la guerra degli anni ’45 – quella che si chiama la seconda guerra mondiale – c’era una situazione, soprattutto tra i giovani, molto delicata e molto penosa. E la ragione non era la religione. La guerra aveva altre motivazioni (ammesso che la guerra possa avere delle motivazioni) che la religione. Io avevo partecipato alla Resistenza e avevo tra i miei compagni dei credenti e dei non credenti… Allora, dopo la guerra,    avevo aperto un albergo della gioventù, per chicchessia, per vedere di favorire la conoscenza e il vivere insieme di giovani i cui padri si erano uccisi l’un l’altro durante la guerra, per una nuova società fondata sul rispetto delle differenze e sull’amore.
Poi, un giorno, sono stato chiamato in aiuto di un uomo che aveva tentato di suicidarsi, in un momento di disperazione totale. A quest’uomo, che si chiamava Georges, io ho detto: «Georges, prima di ritentare di suicidarti, perché non vieni ad aiutarmi a costruire delle case per i senza tetto di Parigi…?». Georges ha accettato ed in questo momento è nata la prima comunità di Emmaus. Nelle nostre comunità le virtù teologali le viviamo all’incontrario: carità, speranza e fede. Le nostre comunità sono comunità di lavoro, di condivisione e di solidarietà. A partire dall’amore vissuto ogni giorno, la speranza comincia a comparire in questi uomini che erano perduti e abbandonati, la speranza e la fierezza di essere ancora utili a qualcuno… e dopo, se Dio vuole, delle volte la fede arriva a completare la gioia di questi uomini che hanno ritrovato la loro dignità.
Per terminare su questa questione, ecco l’estratto di una lettera che l’Arcivescovo di Cambrai mi ha indirizzato il 29 maggio 1954: “Ci sembra che il nostro ruolo di vescovo è di lasciarvi intera libertà per la vostra azione che è riservata ad ambienti spesso molto lontani dalla Chiesa; un patrocinio che fosse partigiano del clericalismo o sembrasse farlo, paralizzerebbe senza dubbio la vostra azione di penetrazione tra molte persone. Ma questa attitudine di discrezione verso il pubblico non ci deve impedire di esprimervi i nostri ringraziamenti e, da parte mia, il mio fedele affetto. Ringrazio Dio di avervi scelto come suo strumento in questo apostolato, così attuale e urgente, dell’abitazione”».

Lei, Padre, da oltre 50 anni vede da vicino le miserie del mondo. Ma qual è la miseria più grande dell’uomo?

«La più grande miseria per una persona è di sentirsi troppo dimenticata, lasciata da parte, inutile. Quando io penso a Georges, il primo compagno di Emmaus, io sono sicuro che egli ha accettato la mia proposta di venire ad aiutarmi per costruire delle case per i senzatetto, perché ha pensato che sarebbe arrivato un giorno in cui qualcuno alloggiato nelle case che lui aveva costruito, incontrandolo gli avrebbe detto “Grazie”. Grazie a lui, un assassino, un suicida maldestro…
La miseria di sentirsi di troppo è la disgrazia più spaventosa per una persona. Di conseguenza, la gioia più grande, più bella, è quella di vedere che è utile a qualcuno.
Io penso che ciascuno di noi ha gustato questa gioia quando qualcuno ci ha detto: «Ho bisogno di te». Non dimentichiamo che ad ogni momento Dio dice a tutti i suoi figli: «Ho bisogno di te». Per eliminare tutte le ingiustizie sulla terra, perché non ci siano sulla terra delle madri che soffrono non avendo niente da dare da mangiare al figlio che piange, perché tutte le guerre possano terminare, per rifare questo mondo pieno di sofferenze, Dio ci ripete: “Figlio mio, ho bisogno di te”».

(intervista realizzata con l’amichevole collaborazione del presidente di Emmaus Italia, Graziano Zoni. Traduzione dal francese di Luigia Ceccherini e Davide Toffoli)

da Adesso n.18 – giugno 2000

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