IN GUERRA PER AMORE

di Arnaldo Casali

Debuttare con un bel film è pericolosissimo, si sa. L’opera seconda non riesce mai ad essere all’altezza della prima. Quindi per uscirne vivi l’unica cosa da fare, è superarla.

Capita di rado ma qualcuno ci riesce. Per esempio Pif. Se La mafia uccide solo d’estate è stato un ottimo esordio, In guerra per amore punta molto più in alto. E ci arriva.

Ora l’ex Iena deve difendersi dall’accusa di parlare solo di mafia. Ma magari ne parlassero tutti così. Ci vuole coraggio – a mettere insieme un dittico come quello di Pierfrancesco Diliberto. Ma soprattutto fantasia, umorismo e l’umile ambizione di chi vuole fare grandi cose ma riesce a non prendersi troppo sul serio.

Pif è esattamente l’anti-Saviano dell’antimafia. Nella sua opera non c’è né l’ambigua epica criminale che finisce per celebrare ed esaltare il mondo della mafia come in Gomorra, né l’esasperata retorica che tesse l’elogio dei Grandi Eroi dei predicozzi dello scrittore campano. Al contrario, c’è umorismo, c’è quotidianità, c’è originalità.

In nessuno modo In guerra per amore replica La mafia uccide solo d’estate. Piuttosto, ne va alle radici.  Se il primo film era fondamentalmente autobiografico, e raccontava la storia della mafia contemporanea vista attraverso gli occhi di un siciliano cresciuto negli anni ’80, questo secondo mascherandosi da storia d’amore in tempo di guerra, è una vera e propria inchiesta su un pezzo di storia di cui tutti abbiamo sentito parlare ma di cui nessuno parla mai: ovvero il ruolo rivestito dalla mafia nello sbarco degli alleati in Sicilia.

Che il fascismo si fosse contrapposto a Cosa nostra, è una cosa di cui – più o meno – sapevamo qualcosa. E che gli americani abbiamo cercato tra i mafiosi i propri alleati, sì, qualcosa avevamo sentito dire. Pif, con coraggio e impegno, scava nel torbido, tira fuori i documenti, ricostruisce il processo che ha portato la mafia a regnare incontrastata in terra siciliana nel dopoguerra, portando a quel controllo totale del territorio a cui nemmeno i grandi eroi sopraddetti sono riusciti a strapparla. Anche se qualche segnale positivo arriva senza dubbio dai titoli di coda dove scorrono le tante collaborazioni, i tanti patrocini di Comuni e Regione che solo dieci anni fa sarebbero stati impensabili.

Ma il coraggio di Pif, oltre che nell’affrontare temi così delicati e scottanti con poesia e leggerezza, sta anche nel limitarsi a spendere il suo nome e il suo volto affiancati da quelli di Miriam Leone per un film che – per il resto  – non ha troppe facce o nomi noti, ma straordinariamente efficaci per raccontare quella terra e quel pezzo di storia.

Scritto bene, interpretato benissimo e e diretto in modo straordinario (non mancano virtuosismi, scene di azione ed effetti speciali), In guerra per amore ha solo un grosso difetto: non fa ridere. Non fa ridere per niente e – attenzione – non sarebbe un difetto, se non ci provasse. Invece ci prova in continuazione, con battute banali e sketch prevedibili. Ed è davvero paradossale, perché quando il film punta sullo storico, sul drammatico, sul poetico riesce meravigliosamente. Quando vuole far ridere fallisce miseramente facendo cadere verticalmente stile e livello dell’opera.

Caro Pif, lasciatelo dire da un cultore dell’umorismo – uno che vuole ridere sempre e vuole ridere di tutto e giudica la gente in base alla capacità di ridere: Non è che bisogna far ridere per forza. Quando si fa un film così bello e si racconta una storia in cui – davvero – non c’è proprio niente da ridere, non bisogna aver paura di essere seri. Tanto con una faccia simpatica come la tua e una mano leggera come tua, stai tranquillo che pesante non ci diventi comunque.

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