Castità e verginità del Movimento 5 Stelle

di Arnaldo Casali

Passeranno alla storia come i 100 giorni che hanno cambiato la storia della politica italiana, disintegrando i due partiti che hanno dominato gli ultimi vent’anni e inaugurando la cosiddetta Terza Repubblica.

Anche se in realtà non siamo mai usciti dalla prima: sotto il profilo formale lo siamo sempre rimasti (la Costituzione è rimasta la stessa) sotto quello politico, dopo aver fatto finta per vent’anni di essere una Repubblica presidenziale, con grandi coalizioni e un premier candidato, oggi siamo tornati ai vecchi accordi post-elettorali.

In tre mesi si è passati dagli insulti tra i due partiti con più voti – Movimento 5 Stelle e Lega – alle corrispondenze di amorosi sensi. L’esasperante stallo ha rischiato di portarci a nuove elezioni senza nemmeno formare un governo e si è arrivati ad accusare il presidente della Repubblica di alto tradimento e attentato alla Costituzione perché si rifiutava di nominare un ministro; ma alla fine – dopo aver toccato il punto più basso della politica italiana – il sospirato governo è arrivato.

Governo senza dubbio anomalo: per la prima volta, anziché essere il presidente del consiglio a nominare i ministri, sono stati due ministri a scegliere il presidente del Consiglio.

Additato sin dall’inizio come un fantoccio di Salvini e Di Maio, Giuseppe Conte con il passare del tempo sta diventando una figura sempre più eterea mentre è chiaro chi è che comanda: Matteo Salvini, ufficialmente solo ministro dell’interno, ma ormai protagonista indiscusso della scena politica italiana, con Di Maio ridotto al ruolo di dama di compagnia.

Si è visto in occasione del caso Aquarius: se Salvini ha chiuso tutti i porti alla nave che trasportava 629 migranti (tra i quali 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte), usando parole particolarmente sprezzanti e (li ha definiti passeggeri di una crociera) i leader del Movimento 5 Stelle non hanno avuto il coraggio di reagire in alcun modo.

Di Maio ha giustificato il suo compare, Fico – invocato da molti – alla fine non si è pronunciato, mentre il sindaco di Livorno Nogarin, dopo aver pubblicato un post su facebook in cui annunciava l’apertura del suo porto, è stato costretto a cancellarlo.

Insomma, è ormai evidente come Salvini tenga sotto scacco Di Maio e i suoi.

Anche se il Movimento 5 Stelle ha avuto quasi il doppio dei voti della Lega da solo non potrà mai governare; se vuole restare al governo, quindi, gli tocca mandare giù il boccone amaro: tenersi politiche di sapore razzista, e anche ministri velatamente omofobi, perché se dovesse alzare troppo la voce si tornerebbe alle elezioni e Salvini, a quel punto, è pronto a trionfare e governare con il centro destra – di cui è ormai leader indiscusso – rispendendo tranquillamente il Movimento 5 Stelle all’opposizione.

Il movimento di Grillo, in dieci anni è passato così da “nessuno deve restare indietro” a “parecchi devono restare fuori”.

Un destino amaro per il più rivoluzionario, il più idealista, il più puro dei movimenti politici italiani.

Nato il 4 ottobre 2009 nel segno di san Francesco, del santo di Assisi – e del papa che sarebbe arrivato tre anni e mezzo dopo – il Movimento 5 Stelle condivideva gli ideali di salvaguardia dell’ambiente, di povertà, di rifiuto delle logiche di potere, di ritorno alla cittadinanza. Tanto che quando erano nate le prime liste civiche a cinque stelle, Grillo aveva escluso la nascita di una “lista civica nazionale”, probabilmente prevedendo già che sarebbe stato l’inizio della fine. Perché la politica è troppo spesso nemica della cittadinanza.

Forse era inevitabile, dunque, che il non-partito di Beppe Grillo seguisse il destino del non-ordine religioso di San Francesco: se i frati minori, da gruppo di scalmanati che inseguivano un’utopia nell’arco di dieci era diventato il più importante e potente ordine religioso della Chiesa Cattolica, il M5s da movimento dei cittadini è diventato partito di governo abdicando, uno dopo l’altro, a tutti i suoi principi e i suoi fondamenti.

Non a caso, in entrambi i casi il fondatore, a un certo punto, ha scelto di farsi da parte lasciando il comando a un “normalizzatore”: Francesco a frate Elia, Beppe Grillo a Luigi Di Maio.

E se è vero che l’abito fa il monaco, mentre i francescani trasformarono il sacco del fondatore in una vera e propria divisa, i grillini – divenuti pentastellati – hanno abbandonato i vestiti sportivi, da fricchettoni o da metallari e hanno vestito giacca e cravatta.
Mai come in questo caso la giacca è diventata il manto del potere, mai la cravatta è stata metafora più calzante del guinzaglio.

Per ora l’ultimo fondamento del Movimento 5 Stelle rimasto in piedi è il vincolo dei due mandati: già messo in discussione, però, durante questa infinita campagna elettorale, dallo stesso Di Maio.

Invocato da Beppe Grillo nei suoi spettacoli sin dai primi anni 2000, dovrebbe servire a garantire che la politica resti un servizio pubblico e non diventi una professione, e prevede il limite massimo di due mandati cumulabili in tutte le cariche elettive, a qualsiasi livello istituzionale. E’ il motivo per cui – ad esempio – Chiara Appendino o Virginia Raggi, che prima di essere elette sindaco sono state in Consiglio Comunale – non potranno ricandidarsi a sindaco.

Il radicale rifiuto di qualsiasi deroga, anche nei casi in cui un mandato è stato interrotto, ha già mostrato le sue controindicazioni: il caso più clamoroso è quello di Fabio Fucci, sindaco di Pomezia, additato come il più grande modello della buona amministrazione del M5s: prima di diventare primo cittadino del comune laziale, anche Fucci era stato consigliere comunale, ma aveva svolto un solo anno di mandato perché il Comune era stato sciolto. Fucci ha fatto quindi con i Cinque stelle in tutto appena 6 anni di attività politica, a fronte dei 10 previsti dal regolamento sui due mandati. Nonostante questo, proprio per scongiurare deroghe che segnerebbero pericolosi precedenti, è stato costretto a lasciare il Movimento e a mettere in piedi una lista civica su modello di Pizzarotti, perdendo poi le elezioni.

“Abbiamo due, tre regole – aveva commentato Luigi Di Maio – e tra queste c’è la regola dei due mandati, che non è in discussione”.

Quando però a non potersi ricandidare sarebbe stato proprio Di Maio e con lui almeno un terzo dei parlamentari grillini, allora era partita l’arrampicata sugli specchi: lo stesso Di Maio sosteneva infatti che la legislatura non fosse nemmeno cominciata e che quindi tutti i suoi parlamentari si sarebbero potuti ricandidare.

Quel che è certo, comunque, è che il vincolo dei due mandati appare ormai come l’ultima colonna di un tempio – quello dell’anti-politica – ormai già quasi del tutto smantellato.

Basti pensare alla democrazia partecipativa. Un tempo le primarie erano sacre ed esisteva persino il “recall”: tutti gli eletti del Movimento dovevano incontrare periodicamente i loro elettori per riferire sul lavoro fatto ed essere confermati nella fiducia. Ricordi ormai lontani: da tempo quelli che venivano chiamati i “portavoce” anziché portare la voce dei cittadini nelle istituzioni usano gli elettori – trasformati ormai in tifoserie – per amplificare la propria.

Anche le primarie ormai sono quasi un ricordo: se nel 2013 quelle per il Parlamento erano state completamente libere e aperte a tutti gli iscritti, nel 2018 sono state filtrate e per i collegi uninominali la scelta dei candidati è arrivata dall’alto esattamente come nel PD; l’incoronazione di Luigi Di Maio a leader politico – d’altra parte – è stata frutto di un plebiscito più che di un’elezione libera, così come quella del Direttorio, per la quale fu chiesto alla Rete di ratificare una decisione già presa, un po’ come avveniva sotto il fascismo. E se ai livelli alti si cerca di salvare la forma, nei piccoli centri la si ignora del tutto: basti pensare a Terni, dove il M5s era dato per favorito alle elezioni del 10 giugno: quattro anni fa la candidata a sindaco Angelica Trenta era stata scelta attraverso primarie aperte a tutta la cittadinanza, mentre oggi la scelta di Thomas De Luca è stata effettuata da un ristrettissimo gruppo dirigente, senza alcun tipo di coinvolgimento del Meet Up e degli iscritti, e addirittura anticipata da “Il Fatto Quotidiano” settimane prima che fosse comunicata pubblicamente. De Luca stesso, poi, ha personalmente scelto tutti e 33 i candidati in consiglio comunale, chiudendo il Movimento 5 Stelle ternano in una totale autoreferenzialità. Autoreferenzialità che, però, non è stata nemmeno una garanzia di indipendenza: proprio l’essere ormai diventato un partito vero e proprio – infatti – ha fatto sì che le dinamiche nazionali influissero su quelle locali. Così De Luca, ritrovandosi come rivale il candidato della Lega, non si è potuto permettere – in campagna elettorale – nemmeno un attacco al partito dell’alleato di governo, e quando Salvini è giunto in città per sostenere Leonardo Latini qualcuno ha ironizzato che sarebbe stato accompagnato dallo stesso Di Maio.

Vale la pena di aggiungere che se per cinque anni agli iscritti al Movimento è stato chiesto di pronunciarsi su una miriade di proposte di legge in discussione in Parlamento e nel 2014 lo stesso Grillo fu costretto dal voto della Rete a confrontarsi con Renzi, in questi mesi nessuna consultazione è stata effettuata per orientare le difficili trattative guidate da Di Maio: né quando si trattava di fare coppia con Salvini, né quando si è trattato di tendere la mano al Pd, né tanto meno quando si è trattato di ribadire il veto su Berlusconi. Il “popolo del web” è stato chiamato in causa solo alla fine, per sottoscrivere l’accordo già fatto con la Lega.

Che dire poi dell’alleanza di governo? Era inevitabile per scongiurare nuove elezioni: il problema è che il M5s l’ha fatta proprio nelle forme condannate per vent’anni da Beppe Grillo e radicalmente contrarie alle scelte fatte – fino ad oggi – nelle giunte pentastellate.

Non un’alleanza di programma, ma la tipica spartizione di poltrone: la scelta dei ministri, infatti è stata orientata più alla spartizione politica che alle competenze: basti pensare – per dirne uno solo – a Danilo Toninelli, scelto certo non per le sue competenze in tema di infrastrutture ma per la sua militanza nel M5s e la sua vicinanza al leader politico.

Certo non è bello, per chi si è sentito ripetere per anni che “uno vale uno” vedere come oggi uno valga mille, un altro uno e un altro niente, non è bello per chi un tempo si univa al grido “non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta” vedere i portavoce andare a braccetto con la Lega, accomodarsi nei salotti televisivi un tempo additati come la peggiore espressione del Sistema e riciclare nelle proprie liste politici di ogni estrazione partitica, facendosi rappresentare – per citarne uno – dall’ex direttore della “Padania”. D’altra parte, nemmeno l’odore berlusconiano è in realtà poi così insopportabile per i vertici del Movimento, visto che il capogruppo nel Consiglio regionale dell’Umbria – Andrea Liberati – ha un lungo trascorso di militanza in Forza Italia.

Alla fine dei conti l’atteggiamento sprezzante di Di Maio nei confronti di Berlusconi ricorda un po’ quello di certe ragazze timorate di Dio che dopo aver sperimentato ogni genere di selvaggi preliminari si fermano per mantenere la verginità.

Ma il punto è che si può restare vergini senza essere affatto casti. E se vuole davvero continuare la sua rivoluzione, il Movimento 5 Stelle ha un disperato bisogno di purezza. E di ricordarsi che il fine no, non giustifica i mezzi.

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