TUTTI I VOLTI DI ALDO MORO, IL FANTASMA DELLA REPUBBLICA

di Arnaldo Casali 

Insieme a Benito Mussolini è probabilmente Aldo Moro il politico italiano più rappresentato al cinema. Per la sua centralità nella storia della Repubblica, ma anche e soprattutto, per la morte tragica e incredibilmente cinematografica sia per il modo spettacolare in cui è avvenuta, sia per la drammaticità, il pathos, i misteri e i complotti che si è portata dietro e che rende il politico democristiano il vero Fantasma della Repubblica.

Una morte che il cinema, prima di raccontare, ha addirittura profetizzato e che ha portato tre grandi artisti italiani a cimentarsi per ben due volte con la figura dello statista democristiano: Gian Maria Volontè, che ha intepretato Moro nel 1976 in Todo Modo e nel 1986 in Il caso Moro, Fabrizio Gifuni – che lo ha fatto nel 2011 in Romanzo di una strage e nel 2022 in Esterno notte – e Marco Bellocchio, che ha dedicato al sequestro i film Buongiorno notte nel 2003 ed Esterno notte nel 2022.

Due dei narratori dell’omicidio, tra l’altro, potrebbero essere considerati addirittura tra i mandanti morali dello stesso: Todo Modo e I pugni in tasca di Bellocchio avevano infatti a vario titolo ispirato le Brigate Rosse. Ma anche Fabrizio Gifuni – in qualche modo – è coinvolto direttamente, dal momento che suo padre Gaetano, al tempo del sequestro, era segretario generale della Presidenza del Senato.

Todo Modo, il film che processò e uccise Moro con due anni di anticipo

Tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia (che scriverà, nello stesso 1978, il primo libro sul caso Moro), il film di Elio Petri – uscito nel 1976, quando Moro era il capo del governo – è uno spietato processo alla Democrazia Cristiana e mostra gli esponenti delle varie correnti che si incontrano in un curioso albergo per un ritiro spirituale e finiscono per ammazzarsi tra di loro, uno alla volta, fino allo sterminio completo.

Il film vede come protagonista Gian Maria Volonté nei panni di Aldo Moro, che pure non viene mai nominato ma chiamato sempre “Il presidente”. La pellicola si conclude – in modo profetico e inquietante – proprio con la morte di Moro, che dopo aver camminato sopra ai cadaveri seviziati dei suoi colleghi, viene “giustiziato” con un colpo di pistola.

Todo modo Volonté Mastroianni

Davvero un fosco presagio di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, con scene raccapriccianti divenute realtà (Moro che osserva il cadavere deturpato di un collega all’interno dell’automobile, la moglie che dice di volerlo morto perché possa diventare un “monumento”) e che appare ancora più agghiacciante quando si pensa che se nel film il Presidente calpestava con indifferenza i cadaveri dei compagni di partito, nella realtà sarebbero stati proprio i compagni a “calpestare” il suo corpo, condannandolo a morte con lo stesso ipocrita cinismo denunciato da Petri, per poi partecipare ai solenni funerali a San Giovanni in Laterano. Funerali che lo stesso Moro aveva rifiutato nelle sue lettere, tanto che alla celebrazione con il Papa e tutta la Democrazia Cristiana, sarebbero mancati proprio il corpo di Moro e la sua famiglia.

L’opera, grottesca e di matrice espressionista, è fondamentale per capire perché proprio Moro sia finito nel bersaglio delle Brigate Rosse: perché proprio la sua mitezza – da lui stesso rivendicata nell’ultima lettera alla moglie – dovesse pagare per le malefatte del partito.

Descritto da Petri come leader conciliante, bonario, che mira ad accontentare tutti ma segretamente è animato da un’infinita sete di potere e di dominio, Aldo Moro incarnava meglio di chiunque altro il ruolo di capro espiatorio per un partito al tempo stesso cristiano e mafioso, rassicurante e stragista, aperto al dialogo e occultatore di misteri.

Si dice che il regista avesse scartato le prime scene girate da Volonté perché l’attore assomigliava fin troppo al Presidente del Consiglio, tanto lo aveva studiato nei minimi dettagli.
Quello studio approfondito, però, tornerà utile al grande attore dieci anni dopo. E’ proprio Volonté, infatti, a interpretare il politico ucciso dalle Brigate Rosse nel Caso Moro di Giuseppe Ferrara, che – otto anni dopo gli eventi e con le indagini ancora in corso – ricostruisce i 55 giorni di rapimento attenendosi rigorosamente ai documenti e alle lettere dello statista.

Il caso Moro, il primo e il migliore

Se quello di Petri è un cinema di idee, satirico e metaforico, Ferrara fa invece film di inchiesta, basati su ricostruzioni fedeli e personaggi storici ben definiti: basti pensare a Cento giorni a Palermo sull’omicidio Dalla Chiesa (uscito appena due anni dopo i fatti), Giovanni Falcone con Michele Placido e Giancarlo Giannini (realizzato l’anno dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio) e I banchieri di Dio sullo scandalo del Banco Ambrosiano.

Il caso Moro è un film impressionante se si pensa che è stato girato appena otto anni dopo gli eventi, quando ancora molti elementi (come una parte del memoriale) non erano ancora stati nemmeno scoperti e molti dei brigatisti non erano stati catturati.

I protagonisti della vicenda – ad eccezione di Zaccagnini e Berlinguer – erano ancora tutti al potere: Giulio Andreotti si trovava all’apice della sua carriera politica, Bettino Craxi era capo del governo e Francesco Cossiga presidente della repubblica.

Lo scenografo non aveva dovuto fare un grande lavoro perché gli ambienti in cui si era svolta la vicenda erano quasi immutati, fatta eccezione per le cabine telefoniche (che da gialle erano diventate rosse) e qualche modello di automobile, come la Panda.

L’interpretazione di Volontè, in realtà, è molto diversa da quella in Todo Modo: tanto era mimetica e caricata quella, quanto questa è dimessa e interiorizzata. Questa volta l’attore milanese non imita lo statista ma gli presta il suo volto e la sua anima.

A 36 anni di distanza quello di Ferrara resta il miglior film sul rapimento Moro perché – pur mancando di alcune informazioni – usa al meglio tutte quelle che ha: rappresenta una ricostruzione formidiabile e impeccabile, fedelissima e approfondita degli eventi, mantiene uno sguardo asciutto e oggettivo, emoziona senza fare uso di retorica e non ha paura di fare nomi e cognomi senza però sposare alcuna teoria complottista né divisione manichea.

Secondo Rosario Giovanni Scalia, autore dell’interessantissimo saggio Il caso Moro e il cinema: l’elaborazione collettiva di una tragedia nazionale? il film di Giuseppe Ferrara ha la colpa di aver avviato il processo di beatificazione mediatica di Aldo Moro, facendo del politico pieno di ombre e ambiguità descritto da Petri un martire puro, un uomo perbene vittima sacrificale di un sistema corrotto e spietato.

A detta di Scalia, Gian Maria Volontè si era proposto di raccontare, nel Caso Moro, la vigliacchiera del Presidente della DC, che – finito al centro della più clamorosa sfida del terrorismo allo Stato – pensava solo a salvarsi la pelle. Uno statista che – nota ancora Scalia – per salvare la sua vita tirava fuori il più classico “tengo famiglia”.

Scalia cita, tra i detrattori del Moro prigioniero, Leonardo Sciascia, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Sandro Pertini e la stessa brigatista Anna Laura Braghetti.

Volontè, quindi, sarebbe caduto nella trappola di trasformare il suo nemico in un santo, consegnandone così l’immagine ai posteri.

Vale la pena di notare come Volonté, insieme a Castellitto e Placido, sia un “collezionista di figurine” che ha interpretato personaggi storici come Bartolomeo Vanzetti, Enrico Mattei, Carlo Levi, Lucky Luciano, Giordano Bruno, Michelangelo Buonarroti e Caravaggio. Con Placido, peraltro, Volonté ha condiviso anche il ruolo di Mattei, mentre Placido e Castellitto hanno vestito entrambi il saio di padre Pio.

Buongiorno Notte di Marco Bellocchio: la storia diventa mito

Se erano bastati otto anni per partorire Il caso Moro, ce ne vorranno altri diciassette prima che il cinema torni ad occuparsi della “Notte della Repubblica”.

Nel 2003 esce Buongiorno Notte di Marco Bellocchio, in cui a vestire i panni di Aldo Moro è Roberto Herlitzka (Angelo al Terni Film Festival nel 2015).

Come si diceva, Bellocchio, con il suo Pugni in tasca (simbolo della generazione dei figli che uccide quella dei padri) era stato una delle fonti di ispirazione dei brigatisti. Eppure il suo film su Moro non ha nulla di militante, anzi: rappresenta un’opera metaforica e onirica, poetica e allegorica, che non ha alcun interesse nei confronti della verità storica, ma che usa il fatto di cronaca solo come pretesto per la propria riflessione artistica e per tentare una riconciliazione postuma. Tanto che, come il Tarantino di Bastardi senza gloria C’era una volta a Hollywood arriva addirittura a cambiare il finale della storia, proponendo un sogno distopico in cui Moro viene liberato.

Il paradosso è che  – al di là del valore artistico dell’operazione – se c’è un’accusa che si può muovere al film è quella di un ambiguo buonismo che da una parte conferma la santificazione di Moro (vittima immacolata del Sistema) dall’altra riabilita anche i suoi aguzzini: il film è tratto infatti dall’autobiografia di Anna Laura Braghetti che – peraltro – è stata scarcerata l’anno stesso in cui è girata la pellicola. C’è bisogno di aggiungere che il film mostra la brigatista piena di dubbi e di scrupoli e con un grandissimo rispetto per il prigioniero, a cui vuole salvare la vita tanto quanto Pilato quella di Cristo?

Piazza delle cinque lune: JFK all’italiana

Se il film di Bellocchio non aggiunge nulla a quello che sapevamo e serve solo a trasformare un mistero con ancora molti punti oscuri in un mito moderno su cui si può esercitare liberamente la propria creatività, ancora peggio fa – lo stesso anno – Piazza delle cinque lune di Renzo Martinelli.

Nel 2003, per una curiosa coincidenza, destra e sinistra sembrano sfidarsi sull’uomo simbolo del centro: Bellocchio è infatti il prototipo del regista di sinistra, mentre Martinelli è forse l’unico regista italiano dichiaratamente di destra, basti pensare che è l’autore del celebre Barbarossa evocato nelle intercettazioni telefoniche tra Berlusconi e Saccà, e prodotto dalla Rai per fare un favore a Bossi. Eppure con la politica le Lune di Martinelli c’entrano quanto la Notte di Bellocchio: e cioè niente. Entrami distopici, i due film vanno in due direzioni diverse: uno trasforma un fatto di cronaca in una tragedia senza tempo, l’altro tenta di farne un film di inchiesta sui generis.

Martinelli, proprio come Bellocchio, mette infatti Aldo Moro a servizio delle sue ambizioni creative. Che si riassumono nella volontà di scimmiottare i grandi kolossal americani. Se con Vajont aveva rifatto Titanic (addirittura riprendendo intere scene e inquadrature spostate dal transaltantico alla diga) l’intento di Piazza delle Cinque Lune è né più né meno quello di rifare JFK di Oliver Stone in versione italiana.

E chi se non Aldo Moro può essere considerato il John Kennedy italiano?

Il problema è che Oliver Stone aveva basato gran parte della sua inchiesta sul filmato amatoriale dell’omicidio Kennedy. Del rapimento Moro, però, non esiste alcun filmato. Martinelli, allora, se lo inventa.

Il film è infatti un’inchiesta sul caso Moro che chiama in causa servizi segreti, Gladio, P2 e membri della Commissione parlamentare come consulenti storici, ma si basa su un filmato inventato di sana pianta.

Senza entrare nel merito artistico, che vede un cast internazionale capeggiato da Donald Sutherland, direi che ce ne è abbastanza per considerarla la più becera operazione cinematografica sul fantasma della Repubblica. Ancora più paraculo di Bellocchio, poi, Martinelli per ingraziarsi la famiglia Moro arriva a coinvolgere in prima persona il nipote Luca che canta una canzone sui titoli di coda (!!!!!)

Il Divo di Paolo Sorrentino

La figura di Aldo Moro ha un ruolo centrale ne Il divo di Paolo Sorrentino, uscito nel 2008 e dedicato a Giulio Andreotti. Interpretato da Paolo Graziosi (anche lui Angelo al Terni Film Festival nel 2017) in sequenze brevi ma particolarmente incisive e impressionanti tratte dalle lettere e dal memoriale, Moro incarna la cattiva coscienza di Giulio Andreotti, principale responsabile della sua morte.

Le brevissime e intense apparizioni del fantasma di Moro nel bagno di Andreotti  – in cui la voce è distorta simulando una registrazione a bobine – valgono da sole più dei film di Bellocchio e Martinelli messi insieme, entrando a diritto nella storia del cinema.

Aldo Moro – Il presidente, il più sottovalutato

Nello stesso anno, per il trentennale della morte esce Aldo Moro – il presidente di Gianluca Maria Tavarelli, fiction televisiva con cui l’attore pugliese aggiunge il politico suo conterraneo ad una collezione di ritratti che comprende, oltre a Falcone, anche Enzo Tortora, Padre Pio, Trilussa, Giuseppe Soffiantini, Enrico Mattei, Bernardo Provenzano, Vittorio De Sica e Silvio Berlusconi.

La fiction in due puntate prodotta dalla Taodue (simbolo del telefilm di qualità negli anni 2000, si pensi a Distretto di polizia) è forse il film più sottovalutato che sia stato girato su Aldo Moro. Pesantemente criticato dalla famiglia ai tempi dell’uscita e inspiegabilmente apprezzato invece dai sopravvissuti della Democrazia Cristiana (tra cui Andreotti e Cossiga, che vengono descritti come i veri e propri mandanti dell’omicidio) il film oggi è introvabile: il dvd (pur distribuito anche all’estero) è fuori catalogo e l’opera non figura nemmeno nel catalogo di Mediaset Play. Ed è un vero peccato perché, contrariamente alla sua fama, è forse una delle cose migliori girate sul Caso Moro.

Se non è Cinema co la maiuscola, Aldo Moro – Il presidente è sicuramente al di sopra del livello abituale della fiction italiana e offre una ricostruzione particolarmente riuscita dei 55 giorni del sequestro, con un cast di stelle in stato di grazia, tra le quali figurano Marco Foschi nei panni di Mario Moretti, Libero Di Rienzo in quelli di Valerio Morucci, Donatella Finocchiaro (Adriana Faranda), Giulia Michelini (Annalaura Braghetti), Stefano Scandaletti (Prospero Gallinari), Ninni Bruschetta (Oreste Leonardi) e Bruno Cozzari, che riprende il ruolo di Benigno Zaccagnini già interpretato nel Caso Moro.

Il film di Ferrara è sicuramente il riferimento principale della fiction di Tavarelli, anche se lo supera sicuramente per la somiglianza dei politici, che qui raggiunge il massimo livello con Diego Verdegilio nei panni di Francesco Cossiga, Gigi Angelillo in quelli di Amintore Fanfani e un ottimo Massimo De Rossi che dà vita a Giulio Andreotti ricordandolo pur senza farne l’imitazione.

Quanto a Michele Placido, nel 2008 aveva già smesso di interpretare i personaggi, preferendo farsi interpretare – diciamo così – dai personaggi. Placido sa di essere un monumento per il cinema italiano quanto Moro lo è per la politica, e quindi non si sforza minimamente di cercare di assomigliargli, ma si limita a regalargli il proprio volto e la propria voce. Almeno dal 2000 Michele Placido interpreta solo Michele Placido. Ma lo interpreta benissimo: gli sguardi, la voce, l’accento, i modi di fare, quindi, non sono quelli di Moro ma quelli del grande attore, che pure offre un personaggio assolutamente credibile, tanto più nel ruolo del Patriarca, che gli calza a pennello.

Sul piano dei contenuti il film si tiene largo dalle teorie del complotto, mentre approfondisce la complicità tra Moro e le Brigate Rosse che appaiono, di fatto, alleati contro DC e Governo, mostrando in modo inequivocabile come Andreotti e Cossiga non avessero bisogno di alcun complotto per ottenere la morte del loro collega, visto il modo fermo e determinato con cui l’hanno perseguita apertamente.

Romanzo di una strage, la prima volta di Gifuni

In Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, uscito nel 2011, Aldo Moro è interpretato invece da Fabrizio Gifuni, che la Democrazia Cristiana la conosce bene: figlio di un ex ministro e segretario generale della Presidenza della Repubblica, ha vestito per la televisione i panni di Alcide De Gasperi e quelli di Paolo VI.

Romanzo di una strageperaltro, ha lo stesso peccato originale di Buongiorno notte e cioè quello di voler assolvere tutti: da Pinelli a Calabresi in un autentico cortocircuito storico-politico. Non c’è bisogno di aggiungere che anche di Moro viene confermato il ritratto edulcorato di un eroe.

Aldo Moro – il professore, docufiction senza ambizioni artistiche

L’ultimo dei grandi attori italiani a cimentarsi con la figura dello statista assassinato è Sergio Castellitto, uno che come Placido di “figurine” ne ha collezionate tante, visto che è stato – tra gli altri – Fausto Coppi, Walter Tobagi, Gioachino Rossini, don Lorenzo Milani, Enzo Ferrari, Padre Pio, Rocco Chinnici e Gabriele D’Annunzio.
L’attore e regista romano ha interpretato il Presidente nella docu-fiction Aldo Moro – il professore, di impostazione decisamente didattica e andata in onda su Raiuno nel 2018, in occasione del 40° anniversario della scomparsa del politico pugliese.

La docufiction, vale la pena di sottolinearlo, non è un film che contiene frammenti documentari, ma – al contrario – un documentario accompagnato con sketch recitati. Il film con Castellitto non può essere quindi giudicato secondno criteri cinematografici. Totalmente privo di spessore artistico, non ha alcuna ambizione ad inseguirlo. Il piatto forte del prodotto sono le immagini di repertorio e le interviste agli studenti di Aldo Moro e ad altri testimoni come giornalisti, storici e politici del tempo. Castellitto, così come il gruppo di giovani attori che lo accompagna (capeggiati da Andrea Arcangeli, Valentina Romani e Filippo Tirabassi) assolve al suo compito con grande dignità e qualità. Se fosse una fiction, sarebbe mediocre, ma come docufiction è un prodotto eccellente.

Se sarà luce sarà bellissimo, il peggior film della storia del cinema professionale

Citato da Scalia come unico esempio di film che cerca di sposare il punto di vista delle Brigate Rosse  e riportare Moro alla sua reale dimensione e da Pedro Armocida come l’unico che mostra le torture della polizia sui presunti terroristi, Se sarà luce sarà bellissimo di Aurelio Grimaldi è il frutto di un progetto in realtà abortito: Moro un’altra storia, trilogia girata nel 2004 ma mai completata e rimontata come film nel 2008.

E’ un film, quello dell’autore di Meri per sempre, che in effetti riesce a far rivalutare persino Piazza delle Cinque Lune. 

Il fatto che abbia avuto problemi produttivi non giustifica la catastrofe qualitativa rappresentata da questa opera. Anzi, il fatto che qualcuno abbia speso dei soldi per realizzare quello che appare sotto tutti i punti di vista come un prodotto amatoriale è semmai un’aggravante.

La pellicola è imbarazzante sotto tutti i punti di vista: il cast è un concentrato di cani come mai si era visto nella storia del cinema. Su tutti spicca l’interprete dell’interprete del consulente americano. Sì, avete capito bene: l’interprete dell’interprete, il cui unico ruolo è quello di tradurre in italiano le parole pronunciate dall’attrice americana che interpreta il consulente. Anziché proporre una traduzione impersonale come qualsiasi interprete del mondo reale, infatti, l’attrice gigioneggia con sottolineature e faccette in ogni singola battuta per tutta la durata del film. Stridendo ancora di più, peraltro, con la recitazione sobria dell’attrice che traduce.

Se tutti gli attori appaiono come dilettanti alle prese con un provino, badate bene, la colpa non è certo loro, ma di chi non li ha diretti. Perché se un grande regista riesce a far recitare bene anche il peggior cane, un regista cane riesce a rovinare anche gli attori più grandi.

Il rulo di Aldo Moro, poi, è inspiegabilmente interpretato da un indiano: Roshan Seth, che ha peraltro un currriculum che comprende Gandhi, Indiana Jones Dumbo e che viene doppiato malissimo come tutti gli altri attori stranieri.

Per risparmiare sulla scenografia, poi, Grimaldi gira tutto il film con piani strettissimi: di fatto non si vede nessun tipo di ambiente esterno, ma solo facce, piedi e mani. L’arredamento degli interni, poi, è palesemente anni 2000 e nemmeno si sforza di ricordare gli anni ’70.

Che dire poi del montaggio? Sequenze brevi o brevissime tenute insieme da dissolvenze in nero. Persino io nel film che ho fatto con la videocamera a diciassette anni avevo avuto più fantasia.

Ora qualcuno potrebbe essere tentato di dire: Beh, ma Grimaldi è uno scrittore, non un regista, magari il lato tecnico-estatico non è il suo forte.

Veniamo allora alla sceneggiatura che dovrebbe – come si diceva – proporre il punto di vista inedito delle Brigate Rosse, inchiodare Moro alle sue responsabilità e stigmatizare la sua miseria umana.

Come approccia Grimaldi un compito così delicato? Semplicemente alternando gli interrogatori dei Brigatisti a Moro – pieni di rispetto e privi di violenza – a quelli della polizia italiana ad una serie di personaggi a caso (un’insegnante fricchettona, un sospettato qualsiasi) pieni di abusi, insulti e torture di tale ferocia da far impallidire anche Pinochet e Videla. Insomma i brigatisti sono buoni e giusti – al massimo giustamente incazzati – mentre gli sbirri sono tutti cattivissimi. Buoni e cattivi, comunque, restano personaggi tagliati con l’accetta, macchiette prive di spessore e di credibilità.

Ogni tanto, poi, Grimaldi ci mette dentro l’unica cosa che gli interessa veramente: scene di sesso. Così, a caso, giusto a inframezzare le altre sequenze. Probabilmente, il regista pornomane ci direbbe che vuole creare un contrasto con le scene di violenza a cui sono sempre abbinate, ma senza dubbio più credibile risulta la spiegazione dei tre sceneggiatori di Boris. 

Quanto al personaggio di Moro, a dispetto delle premesse non presenta sostanziali novità rispetto alle altre incarnazioni cinematografiche. Il Presidente è sempre pacato, dimesso, incredulo, e parla attraverso le vere parole di Moro. A cambiare sono i suoi carcerieri, molto più severi, che gli rinfacciano i trascorsi fascisti e i collaboratori corrotti, oltre che il consueto campionario fatto di servilismo agli Stati Uniti e alle multinazionali, stragismo e segreti di Stato.

Insomma il film di Grimaldi nei contenuti è il Nulla e nella forma un’ottimo esempio di come si possa fare cinema amatoriale anche con mezzi professionali.

Esterno notte, il kolossal

C’è una differenza abissale tra Buongiorno Notte Il traditore, il film girato da Marco Bellocchio su Tommaso Buscetta nel 2019.

Da una parte abbiamo un’elucubrazione artistica molto barocca su un fatto di cronaca, dall’altra una ricostruzione fedelissima – e con uno straordinario ritmo – di una delle pagine più importanti della storia contemporanea italiana.

Quando Bellocchio ha annunciato il suo secondo film sul sequestro Moro era allora legittimo chiedersi a quale dei due predecessori avrebbe assomigliato il nuovo film. Una variazione sul tema di Buongiorno Notte, o lo stile di Il traditore applicato al sequestro Moro?

In effetti, la serie televisiva – proposta al cinema in due puntate, come era accaduto vent’anni fa con La meglio gioventù – sembra essere, almeno dalla prima parte, esattamente un ibrido tra i due predecessori: un prodotto discontinuo che affianca una magistrale ricostruzione storica e inutili lungaggini.

La ricostruzione della Roma del 1978 è impressionante e accuratissima (qui il mio articolo sulle riprese e Fabrizio Gifuni, per la seconda volta nei panni di Moro, è tanto mimetico da superare lo stesso Volonté; all’altezza del difficile ruolo di Eleonora Moro è anche Margherita Buy, mentre totalmente fuori parte è l’onnipresente Toni Servillo, davvero pessimo nei panni di papa Paolo VI.

D’altra parte Servillo – nel ruolo di Montini – deve vedersela con lo stesso Gifuni, che lo aveva interpretato in modo assai più credibile nella fiction di Fabrizio Costa. In compenso Servillo fa rimpiangere il suo Giulio Andreotti (interpretato nel Divo di Sorrentino) quando compare Fabrizio Contri, che qui ne veste i panni senza ricordarlo minimamente.

E’ vero anche che la rassomiglianza non aiuta mai in Esterno notte, perché – eccenzione fatta per Moro Gifuni – non c’è mai. Nemmeno il pur bravo Fausto Russo Alesi, protagonista dell’intero secondo atto, riesce a rievocare, con il suo volto e la sua voce, quelli di Francesco Cossiga.

E’ quindi un vero peccato che dopo il folgorante inizio, che segue Aldo Moro nei tre giorni precedenti al rapimento e si conclude con una straordinaria ricostruzione della sparatoria, una volta sequestrato il personaggio di Gifuni esca di scena e scompaia per i restanti due episodi, dedicati in gran parte a Cossiga e a Paolo VI. Episodi che, va detto, non aggiungono nulla – nemmeno una virgola – a quello che già sapevamo e sono composti in gran parte da digressioni riflessive e barocche, con qualche strafalcione storico (l’Angelus del Papa pronunciato dalla loggia di San Pietro) e qualche metafora calzante e di grande impatto ma non particolarmente originale (Moro caricato dellla croce di Cristo).

Insomma in Esterno notte sembrano convivere le due anime di Bellocchio: quella del regista di inchiesta e di film storici alla Ferrara, e quella dell’autore barocco e visionario che guarda a Petri.

Non mancano citazioni gustose e strizzate d’occhio allo spettatore, come quando Moro, cenando da solo a casa, ascolta in radio l’annuncio della lavorazione del film Cristo si è fermato a Eboli interpretato proprio da Volonté – principale riferimento di Bellocchio (che l’aveva anche diretto nel 1972 in Sbatti il mostro in prima pagina) e prodotto dalla Rai con una distribuzione sia televisiva che cinematografica, esattamente come Esterno notte. 

Da sottolineare anche come lo stesso gigantesco Gifuni stia ormai diventando un collezionista di figurine: oltre ad Aldo Moro, Paolo VI e Alcide De Gasperi ha dato il volto anche a Pippo Fava, Franco Basaglia e Roberto Antiochia. Ma gli mancano ancora Mattei e padre Pio.

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