Gianni Amelio e la critica compiacente

di Arnaldo Casali

La caduta di stile di  Gianni Amelio è molto triste, ma è anche molto interessante, perché rivela quello che è il rapporto tra registi e critici in Italia.

Durante la conferenza stampa del film Il Signore delle Formiche a Venezia Amelio si è rifiutato di rispondere ad una domanda di Fabio Ferzetti accusandolo di aver scritto – due anni fa – un articolo dal titolo ‘infame’ su Hammamet  (leggi la nostra recensione) e che per questo motivo non vuole più avere nulla a che fare con lui.

“Infame” è una parola che io, personalmente, evito sempre di usare perché suona squisitamente mafiosa. L’infame, per Cosa Nostra, è il traditore, quello che prima o poi – anche a distanza di decenni – dovrà pagare il suo tradimento.

Successivamente Amelio ha spiegato “di non essersela presa per il titolo in sé, quanto per il rapporto che lo legava al critico cinematografico, che nel frattempo non gli avrebbe nemmeno scritto un messaggio, di fatto evitandolo per non avere un confronto”.

Ora premetto che di Gianni Amelio ho un’ottima opinione sotto il profilo personale (quando l’ho conosciuto ho avuto l’idea di un uomo profondamente narcisista ma al tempo stesso anche profondamente autentico e dalla profonda etica: ricordo come – ancora affamato al termine della cena – anziché farsi portare un’altro piatto finì gli avanzi dei commensali, “perché il cibo non si spreca”) e una discreta opinione sotto il profilo artistico (ho amato molto alcuni suoi film come Le chiavi di casa e odiato molto altri, come La tenerezza).

Aggiungo che Hammamet è un film impeccabile sotto il profilo artistico, ma molto molto discutibile sotto il profilo politico.

Detto questo, il titolo “infame” che Amelio si è legato al dito è il seguente: “Un grande Favino, un piccolo film”.

Ora evito di attaccare il pippone sulla critica cinematografica (dico solo che il mio professore di Metodologia della critica dello spettacolo alla prima lezione ci spiegò come un critico non debba mai dare un giudizio ma effettuare un’analisi – ma va detto che pochissimi tra i critici italiani hanno studiato critica) per concentrarmi su quel “rapporto che lo legava al critico cinematografico”.

Ecco, se la critica italiana fosse onesta, Amelio non si sarebbe mai infuriato per una stroncatura fatta da un amico vivendola come un tradimento.

Io da critico non mi lascio mai influenzare dal rapporto personale (e nemmeno dalla stima profesisonale) che mi legano al criticato. Ma a mia volta, da scrittore, non mi offendo mai per le critiche degli amici. Anzi, ritengo una stroncatura scritta da un amico molto più preziosa di quella di un nemico, perché sicuramente più sincera.

L’amicizia non dovrebbe entrare MAI nella critica di un’opera d’arte.

Se Gianni Amelio si permette di infuriarsi, è perché – invece – in Italia i critici parlano sempre male dei nemici e sempre bene degli amici. Questa è la regola, non l’eccezione.
L’eccezione clamorosa è appunto, un critico che si permette di stroncare l’opera di un regista amico.

Di questa cosa sono testimone diretto, conoscendo personalmente molti registi italiani e quasi tutti i critici cinematografici.

In Italia ci sono sempre stati dei registi di cui bisogna sempre parlare male e registi di cui bisogna sempre parlare bene.

E’ così da settant’anni: Vittorio De Sica lamentava nelle sue lettere l’abilità di Federico Fellini ad ingraziarsi i critici, io ne potrei raccontare molte su Alessandro D’Alatri, che per la critica italiana dopo aver girato I giardini dell’Eden è diventato improvvisamente da “giovane promessa” a “insopportabile stronzo”.

Sul versante opposto, ho letto recensioni entusiastiche delle peggiori porcate girate da Dario Argento e dei film meno riusciti di Carlo Verdone.

Gianni Amelio è, appunto, uno di quei registi intoccabili, di cui – a prescindere da quello che gira – si può solo scrivere bene. La stroncatura, in Amelio (come in Bellocchio e in tanti altri) non è, semplicemente, contemplata.

Quindi è assolutamente comprensibile che per un Regista Sacro la stroncatura di un amico diventi un trauma, una ferita rimasta aperta anche dopo due anni e mezzo.

Ma come si dice a Terni: non c’ha da fa lui ma chi lo ha fatto diventare così. Se si cominciassero a criticare i film in base alla loro qualità e non in base alla simpatia o all’antipatia per il regista, nessun regista potrebbe accusare un critico di tradimento solo perché, per una volta, il suo film non gli è piaciuto.

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