Franco Zeffirelli, il regista traviato

di Arnaldo Casali

E’ con Franco Zeffirelli che ho imparato la parola “regista”.

Avrò avuto cinque-sei anni e non ricordo se è stato con Fratello sole, sorella luna Gesù di Nazareth.  O forse tutti e due: quando è uscito il film su san Francesco – nel 1972 – io non ero ancora nato, e quando è stato trasmesso per la prima volta lo sceneggiato su Gesù avevo due anni. Ma tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 entrambi venivano trasmessi in televisione di continuo e avevano già creato l’immagine definitiva del fondatore del cristianesimo e quella del suo esponente più celebre. Le foto di scena di quei due film venivano giù usate come santini, la colonna sonora entrata nel repertorio delle canzoni di chiesa. E poi c’era Romeo e Giulietta, a raccontare in modo altrettanto “definitivo” la più celebre storia d’amore della letteratura. Poco dopo, poi, era arrivato un altro capolavoro: La Traviata con Placido Domingo e Teresa Stratas.

Il più formidabile interprete del cristianesimo, di Shakespeare e della musica lirica si chiamava Franco Zeffirelli, ed era il regista. Il mio regista preferito, sentenziai. Non poteva essere altrimenti, visto che era anche l’unico che conoscevo. Poi, poco dopo, arrivò E.T. e il mio regista preferito divenne Steven Spielberg. E lo è rimasto fino ad oggi.

Con Zeffirelli, invece, in seguito ho avuto un rapporto di amore-odio: amore per altri film come Amleto Jane Eyre, ma anche per la sua carriera politica. Ebbene sì, io Zeffirelli politico non solo l’ho apprezzato ma l’ho pure votato, ed è stato proprio e solo per lui se devo confessare di aver messo la croce, anche se solo una volta in vita mia, sul simbolo di Forza Italia: l’ho fatto per mandare Zeffirelli al Parlamento Europeo e non me ne sono pentito, visto che è tra i pochi parlamentari europei ad aver fatto qualcosa di concreto: è stato lui, infatti, a ideare le targhe automobilistiche che ancora oggi vengono utilizzate in tutta l’Unione Europea.

Più difficilmente, invece, ho digerito le sue ospitate televisive in programmi trash in cui parlava soprattutto di calcio  (ricordo una volta disse che si sarebbe portato volentieri a letto Stefano Tacconi) e l’estremismo con cui si lasciava andare a provocazioni di pessimo gusto (la pena di morte per le donne che abortiscono).

Con il tempo, poi, mi sono anche reso conto dei suoi limiti come regista di cinema. Se nell’opera lirica era imbattibile, i suoi film sono effettivamente molto spesso melensi, retorici, scritti male e interpretati peggio.

Nonostante questo continuo a pensare che Zeffirelli sia uno dei registi più sottovalutati della storia del cinema italiano e la dimostrazione plastica di quanto la critica si muova più per pregiudizi che per analisi. Zeffirelli è stato il regista più odiato dai critici, sistematicamente massacrato da giornalisti militanti pronti a poi a promuovere e lodare qualsiasi porcata di autori integrati nel loro sistema.

Molti film di Zeffirelli (soprattutto gli ultimi) sono pieni di difetti, è vero, ma lo sono anche quelli d Bernardo Bertolucci, Ermanno Olmi o di Marco Bellocchio – tanto per fare i nomi di tre “intoccabili” – ma su nessuno è stato gettato tanto fango come su Zeffirelli.  Ed è evidente che la vera ragione non erano i suoi film, ma le sue idee politiche e religiose.

Essere di destra o essere cattolici non è mai stato ammesso nel cinema italiano degli ultimi quarant’anni. E Zeffirelli non solo era entrambe le cose, ma lo era in modo sfacciato e militante.

Non a caso, per un Camilleri super-celebrato mentre è ancora vivo, Zeffirelli ha visto il suo funerale disertato dall’intero mondo della cultura, mentre da parte dei suoi detrattori è calato un assordante silenzio rotto da poche eccezioni come Daniele Luchetti e Alberto Crespi – tra coloro che, per sua stessa ammissione, “contribuirono alla mattanza” – e che ha scritto un bellissimo e sincero tributo in cui non manca di fare autocritica e riabilitare, almeno in parte il Maestro “erede del genio italico”.

Vale la pena di ricordare che Zeffirelli è stato davvero tante cose: è stato il pupillo di Luchino Visconti e amico carissimo di Maria Callas (che ha diretto tante volte e alla quale ha dedicato il suo ultimo film) con la quale ha trasformato l’opera lirica in autentico teatro realista. Ma è stato anche l’autore del film L’inchiesta di Damiano Damiani, in seguito contrapposto – paradossalmente – al suo Gesù.

Era stato lui, infatti, a scriverne il soggetto nel 1972 con Ennio Flaiano e Suso Cecchi D’Amico e ne aveva parlato in un’intervista cinque anni dopo, in occasione dell’uscita di Gesù di Nazareth, come di un progetto naufragato che aveva rappresentato il suo primo approccio con la figura di Cristo.

Quando quel soggetto fu ripreso in mano e girato da Damiani nel 1986 il nome di Zeffirelli fu cancellato dal soggetto.

Quando all’università ho iniziato a studiare la figura di Francesco d’Assisi, ho dovuto prendere atto di un certo conformismo anti-zeffirelliano anche in ambiente accademico: tanto i critici cinematografici quanto gli studiosi francescanisti considerano infatti il primo film di Liliana Cavani (quello del 1966) come il migliore mai girato su Francesco d’Assisi, e quello di Zeffirelli come il peggiore in assoluto.

Ora, se da adolescente ancora mi esaltavano di fronte a Fratello sole, sorella luna  in seguito anche io ne o preso decisamente le distanze e oggi lo trovo insopportabilmente retorico e melenso e considero la Cavani la migliore interprete del santo (anche se resto più legato al secondo film, quello del 1989 con Mickey Rourke).

Non si può dire però che il Francesco di Zeffirelli – senza dubbio il più popolare – sia il peggiore senza essere in malafede. Se non altro perché di porcate, sul nostro santo, ne hanno fatte davvero tante: dall’americanata di Michael Curtiz del 1964 alla pessima fiction di Lamberto Bava del 2001. E se non in cima alla classifica, il film di Zeffirelli merita comunque di stare sul podio.

D’altra parte il conflitto di Franco Zeffirelli con la critica e la sua capacità di essere così popolare è qualcosa che dovrebbe far riflettere la sinistra: quella sinistra radical chic che sembra aver perso ormai qualsiasi contatto con il popolo e che anziché chiedersi perché Matteo Salvini abbia così tanti elettori, preferisce sentenziare che gli elettori di Salvini sono analfabeti e razzisti.

Il mio grande rimpianto è non essere riuscito ad assegnare a Zeffirelli l’Angelo alla carriera del festival Popoli e Religioni: perché con tutti i suoi limiti, anche sotto il profilo religioso, non c’è dubbio che sia stato uno degli artisti che l’avrebbero meritato di più.

Ma se l’abbiamo dato a Liliana Cavani, Giuliano Montaldo, Franco Battiato, Ascanio Celestini, Elio Germano e Pupi Avati e non a lui, non è perché ci siamo conformati anche noi alla critica bempensante. Piuttosto è stato lui, semmai, a snobbarci: ci abbiamo provato per anni, ad invitarlo, senza riuscire nemmeno a parlarci. Ma va detto che quando il festival è nato lui aveva già 83 anni (me lo ricordo bene perché aveva l’età di mia nonna, che era morta un anno prima della prima edizione) e non era facile fallo muovere dalla sua magniloquente villa romana.

D’altra parte, se sul suo Francesco hippie si può discutere molto (ma non certo sulle magnifiche immagini – nel 1995 andai inutilmente a cercare la chiesetta di San Damiano ricostruita a Castelluccio di Norcia) Gesù di Nazareth resta ancora insuperato, non solo per il volto iconico di Robert Powell (e la voce di Pino Colizzi, che poi nel film interpreta il buon ladrone!) ma anche per alcune scelte filologiche come la scena della crocifissione, che restano ancora un caso unico nella cinematografia evangelica.

    Questa voce è stata pubblicata in cinema, editoriali. Contrassegna il permalink.

    I commenti sono chiusi.