Floyd e l’elefantessa. Storia di un indignazione inutile (e ipocrita)

di Arnaldo Casali

Sui meme, le vignette, le foto commosse e indignate per la morte dell’elefantessa incinta, una delle frasi ricorrenti è “l’uomo è l’unico animale che uccide per il piacere di veder soffrire altri esseri viventi” e altre amenità del genere.

Come accade sempre, la corsa all’indignazione e alla retorica – come nel caso di George Floyd – non lascia il tempo per capire che cosa è successo veramente: l’importante è trovare slogan, meme, flashmob, l’importante è commuoversi, indignarsi e possibilmente, strumentalizzare.

Come sempre, quando si è capito come sono andate davvero le cose, si è capito anche che gran parte delle cose che si erano dette erano idiozie.

(Quanti esempi potremmo fare? Dall’atleta nigeriana aggredita al carabiniere ucciso a Roma).

La povera elefantessa non è stata uccisa per sadismo, ma a seguito di un incidente. L’ananas al petardo non era un gioco malvagio, un atto di cattiveria gratuita: era un sistema usato dai contadini per difendersi dall’attacco dei cinghiali e altri animali selvatici, e che è finito per disgrazia nella bocca sbagliata.

Ora direte che è comunque una crudeltà, eccetera eccetera, come se invece prendere a schioppettate un cinghiale o sgozzarlo mentre i cani lo tengono fermo, invece, è una cosa carinissima; eppure non vi vedo così impegnati nella difesa nei poveri cinghiali cacciati in luoghi ben più vicini a voi del Kerala. Tanto meno dei vari pesci destinati ad una morte altrettanto orribile, e non certo per difesa ma per sport.

Se poi quelli che si inteneriscono per le foto del feto dell’elefantino sono gli stessi che si indignavano un anno fa per il feto di gomma di Verona, devo intravedere altre forme di ipocrisia, oppure pensare che magari se l’animale avesse soppresso di sua volontà il cucciolo in grembo, avrebbero parlato di atto di autodeterminazione dell’elefantessa e accusato di cattivo gusto chi postava le foto del piccolo.
Quasi che un feto abortito possa essere un povero piccolo ammazzato o un fastidioso grumo di cellule rimosso a seconda di come è morto.

Quanto a Floyd, la questione è delicatissima e controversa e non ci voglio entrare a gamba tesa: dico solo che le cose sono un pochino più complesse di come vengono raccontate per strumentalizzarle.

E forse vale la pena di ricordare che l’assassino di David Raggi – un attimo prima della tragedia – era stato immobilizzato da un poliziotto; anche lui aveva detto “non riesco a respirare” e c’erano testimoni e c’erano telecamere puntate su quel poliziotto, che ha allentato la presa, e poi sappiamo come è finita.

Vale anche la pena di ricordare che Floyd non è stato ucciso da un poliziotto durante l’arresto, ma da un malore causato o comunque aggravato – si presume – dal trattamento subito durante l’arresto.
Che non è una cosa bella, ma parecchio diversa che essere ammazzati senza ragione solo perché si è neri.

Tutto questo non giustifica gli abusi delle forze dell’ordine, né tantomeno le bestie che a volte vi militano, ma ricondurre l’omicidio di un nero al razzismo e strumentalizzarlo per una campagna elettorale contro un pur pessimo presidente, la trovo una mancanza di rispetto nei confronti della vittima stessa.

Per tutto questo io non mi unisco mai al coro degli indignati di mestiere, che sfruttano ogni occasione buona per dividere il mondo in bianco e nero e in bianchi e neri, buoni e cattivi, vittime e carnefici, eroi e vigliacchi, Saviani e Salvini, De Falchi e Schettini.

E’ solo un modo per tentare di fuggire dalla propria mediocrità – e dalle proprie responsabilità – mettendosi dalla parte dei giusti senza fare la fatica nemmeno di accendere il cervello. E tanto meno la coscienza.

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