Achille Lauro, la provocazione conformista

di Arnaldo Casali

E’ Achille Lauro il vincitore di Sanremo 2020.

E se anche se ha mancato il primo posto, resta comunque lui il vincitore immorale di questa edizione. Perché è senza dubbio il personaggio che più di tutti incarna questa settantesima edizione del Festival della Canzone Italiana, totalmente consacrata all’ipocrisia, alla dittatura dell’immagine, alla provocazione conformista, all’umiliazione della musica e di qualsiasi forma artistica.

Basti pensare all’imbarazzante esibizione da karaoke di Elettra Lamborghini e Miss Keta e allo stupro di Sergio Endrigo ad opera di Morgan e Bugo, alle ovazioni per il playback dei Ricchi e Poveri ma non per il Cantico dei Cantici di Roberto Benigni, a lunghi pipponi sul sessismo e l’emancipazione femminile a cui siamo stati sottoposti per due giorni per poi veder salire sul palco una poveraccia che non sa fare niente, solo per avere in prima fila il calciatore del momento. Che dire poi del gran finale che ha visto ospiti Garbiele Muccino (accusato di violenze dall’ex moglie) e Fausto Brizzi, principale accusato nello scandalo italiano sugli abusi sessuali nel cinema (assolto non perché le accuse si sono rivelate false, ma a causa di cavilli legali).

Sono anni che si lamenta poi il fatto che a Sanremo gli ospiti sono più importanti dei concorrenti: ma che addirittura si arrivi a far cantare una canzone in gara ogni due-tre ospiti forse è decisamente troppo. E che dire dell’audience aumentata allungando i tempi fino a concludere la serata finale alle 2.40 di notte?

D’altra parte Amadeus, per colmare il vuoto pneumatico rappresentato dalla sua presenza, ha affollato il palco con qualsiasi cosa: inspiegabile (a meno di non pensare male) l’omaggio a Gigi D’Alessio, mentre la presenza fissa di Tiziano Ferro e di Fiorello si spiega solo con il bisogno di riempire il vuoto lasciato da Claudio Baglioni, visto che Amadeus – a differenza del suo predecessore – come presentatore è impeccabile ma per il resto non sa fare nulla.

Se il ruolo di Tiziano Ferro replica quello del cantante-intrattenitore rivestito l’anno scorso dal direttore artistico, Fiorello sta lì solo per divertirsi a ricordarci che se l’avesse presentato lui, il festival, allora sì che sarebbe stato uno spettacolo divertente. Anche se l’esasperata atmosfera di cazzeggio con gli amici (che maschera – in realtà – pesanti tensioni dietro le quinte) se in alcuni momenti ha letteralmente salvato la serata in altri ha fatto quasi rimpiangere gli sketch scritti e  ingessati di qualche anno fa.

Ma certo la colpa di Amadeus – presentatore impeccabile – non è certo quella di non essere uno showman: la sua colpa è quella di fare il direttore artistico senza saperlo fare, o meglio ancora di firmare un festival che non ha alcuna direzione artistica, quanto piuttosto una direzione commerciale.

Quello che è stato davvero scandaloso, tuttavia, è il clima da regime che si respira in Rai: nei social si dibatte, ci sono opinioni diverse, si dice tutto e il contrario di tutto, ma se guardi qualsiasi programma Rai ci sono solo elogi per Amadeus, elogi per Achille Lauro, elogi per tutti, critica azzerata nei confronti di qualsiasi aspetto della manifestazione. Nemmeno i critici osano criticare, e chi appena appena di discosta dal copione anche con innocue e pacate osservazioni magari sulle qualità musicali di un artista viene subito zittito.

Persino i litigi in diretta di Fiorello/Ferro e Morgan/Bugo in Rai sono stati ridotti ai minimi termini, nonostante facciano indubbiamente ascolto. E questa cosa è inquietante, perché probabilmente queste querelle sono state disinnescate proprio in quanto autentiche, perché non facevano parte del copione scritto dai dirigenti Rai e che tutti quelli che sono entrati nelle trasmissioni televisive – tutti, ospiti compresi – dovevano rispettare scrupolosamente.

Nella televisione trash che viviamo da decenni, i litigi vengono inseguiti, provocati, amplificati perché lo scandalo crea attenzione. In questo caso, non avendolo programmato, pilotato, non avendo deciso – in sostanza – come andava gestito e quale posizione andava presa, è stato preferito tenerlo fuori dal copione.

Lo trovo inquietante perché è una forma di autoritarismo persino retrograda rispetto a quella salviniana-berlusconiana ma richiama le dittature del Novecento in cui non si cercava di manipolare il pensiero ma – più semplicemente – imporre un pensiero unico.

La costante presenza nelle trasmissioni dei direttori e vicedirettori Rai riporta a momenti non proprio tra i più felici della nostra democrazia.

Torniamo dunque ad Achille Lauro, che grazie alla sua famigerata tutina è già diventato il nuovo eroe della sinistra, decantato come artista anticonformista e coraggioso.

Dunque, siccome non sono abituato a scrivere di ciò che non conosco e fino a due giorni fa di questo tizio avevo sentito solo parlare per la canzone presentata l’anno scorso e che non avevo capito nemmeno se fosse un inno alla vanità e al lusso o la pubblicità di una pasticca di ecstasy, allora prima di scrivere questo articolo mi sono un po’ documentato.

Visto che ho letto che è un ragazzo “deturpato dalla vita, dalla strada, da una famiglia disfunzionale e ha saputo mettere radici diverse e non restituire il male subito” (parole che mi hanno fatto venire in mente quando Raffaella Carrà per introdurre Eminem spiegò che aveva avuto un’infanzia difficile) sono andato a leggermi la biografia.

Dunque, a proposito di disagi familiari, possiamo cominciare con il dire che Achille Lauro (nome d’arte che richiama un discusso politico democristiano e al tempo stesso il più grande trionfo di Bettino Craxi) come manager ha la mamma. Proprio come quell’altro fenomeno mediatico (certo non musicale) di Fedez.

Lauro non è uno di quei personaggi che si sono fatti notare su youtube, come Fabio Rovazzi, Maccio Capatonda o Phaim Bouiyan: Achille Lauro ha costruito la sua carriera muovendosi negli ambienti giusti del trap romano e facendo scelte oculate sotto il profilo commerciale, ha trovato un’etichetta discografica che gli ha fatto muovere primi passi e l’ha abbandonata al momento giusto per passare a una più grande e potente che gli ha permesso di arrivare alla ribalta nazionale e tuffarsi subito in televisione.

Già perché se c’è una strada da cui Achille Lauro proviene, è quella percorsa per il reality show – o reality game, come lo volete chiamare – Pechino Express.

Il suo look è praticamente identico a quello di Young Signorino, la poetica quella del conformismo trap: ovvero droga, sti cazzi, sti cazzi e droga. Ne fa uso per aumentare l’ispirazione artistica ed è così di avanguardia che si ispira ai Doors. Solo che i Doors facevano musica, lui no.

Non sa cantare, e non sembra che la cosa lo preoccupi minimamente. Quando prende il microfono in mano emette gli stessi suoni che fa qualsiasi coatto romano davanti a una birra o in discoteca. Non gli interessa cantare perché tanto non è della sua musica che la gente parla: ha scelto come titolo un motto fascista, sperando probabilmente di aizzare una polemica e dopo la prima serata del festival ha monopolizzato tutti i dibattiti con la sua tutina, come se davvero ci fosse qualcosa di anticonformista nel presentarsi conciato a quel modo sul palco dell’Ariston.

Se fossimo ancora nel Sanremo perbenista e autoritario di un tempo, quando anche fare un “saltino” era trasgressivo, allora certo Lauro sarebbe stato quantomeno un innovatore, ma in un festival in cui il modo eccentrico in cui ti vesti conta molto più di come canti, la vera anticonformista e trasgressiva è Levante, che si presenta due sere consecutive con lo stesso vestito, non certo il Re del Carnevale.

Adesso, galvanizzato da quel successo, Lauro ha deciso di diventare un’icona gay; anche se non risulta che sia omosessuale né che si sia mai interessato all’argomento fino ad oggi. E lo fa, ancora una volta, scimmiottando gli altri.

Tiziano Ferro canta la prima versione gay di Almeno tu nell’universo? Lui deve fare di più, e alla serata delle cover si lancia in un “sono stata anche io bambina innamorata di mio padre”. Solo che Ferro – tra i cantanti italiani più celebri al mondo – si era ripetutamente scusato per non aver preso tutte le note per l’emozione, mentre lui, mascherato da David Bowie (mi ha fatto pensare all’omaggio a Bertolucci in “Boris”) era così sbracato che più che a Mia Martini faceva pensare a Tea Falco.

Tuttavia, io non capisco niente di musica. Per questo mi affido al parere di un professionista, un musicista che lavora proprio in Rai: Francesco Carlesi, che su facebook ha scritto un commento che potrei sottoscrivere riga per riga, ma che arriva da qualcuno che – a differenza di me – la musica la conosce.

“Se io affermo che Achille Lauro è uno scappato di casa privo di spessore artistico, che canta male, che cerca di compensare la sua inesistente caratura attraverso un’immagine sopra le righe, lo dico con piena consapevolezza. Nella mia affermazione non c’è alcuna faciloneria o pregiudizio basato su sensazioni epidermiche. Ora, sinceramente, cosa si trovi di buono in uno che non ha alcuna preparazione musicale, che non ha una storia, che non conosce nemmeno le fondamenta della musica che vorrebbe fare, che non prende una nota intonata manco sotto minaccia, che vorrebbe fare l’anticonformista ma che cade nel conformismo più abusato, vorrei davvero capirlo. Stiamo dando un po’ troppo spesso la patente di “artista” al primo che passa, dimenticando che la musica si basa su scelte frutto di un vissuto, dell’acquisizione e del padroneggiare i linguaggi, non di certo sulla prima cosa che passa per la mente. Tanti artisti hanno fatto ricorso all’immagine forte, ma per rompere degli schemi. Semmai lo schema è proprio lui, che sfrutta la facilità con cui una fetta di pubblico priva di senso critico ingurgita qualsiasi prodotto, come un pollo in batteria. Se una persona qualsiasi andasse in un kakaoke e lì trovasse Achille Lauro in incognito a cantare, non se le filerebbe affatto o meglio, proverebbe una sensazione di disagio nel sentirlo ruttare al microfono. Cosa trasforma, quindi, un parvenu qualsiasi in un idolo? Solo la visibilità mediatica. Fine”.

Picasso – possiamo aggiungere – non si è inventato il cubismo perché non sapeva disegnare e Lady Gaga non si veste in modo eccentrico perché non sa cantare.

Vorrei chiudere citando Graziano Zurlo che sulla pagina facebook della leggendaria serie Boris parafrasa la scena della “locura”, che dice tutto su questo Sanremo:

“Io parlo della locura, Amadè, la locura. La pazzia, che cazzo Amadè, la cerveza, la tradizione o merda, come la chiami tu, ma con una bella spruzzata di pazzia, il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In due parole, Achille Lauro”.

Un capitolo – anzi facciamo paragrafo – a parte merita il vincitore: un cantante vero che canta una bellissima canzone vera.

La cosa non stupisce: ormai da decenni a Sanremo la qualità delle canzoni vincitrici è inversamente proporzionale a quella dello spettacolo.

Elisa – forse l’ultima grande cantante ad aver vinto con una grande canzone all’apice della sua carriera – trionfò in una delle peggiori edizioni in assoluto, quella di Raffaella Carrà. Viceversa, il punto più basso degli ultimi anni – la vittoria di Ermal Meta e Fabrizio Moro – si è raggiunto quando è arrivato a fare il direttore artistico uno dei più grandi cantautori della storia della musica italiana.

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